Immaginiamo che la municipalità di Genova chieda di sciogliere l’unità d’Italia. Anche nei nostri giorni confusi e disgregati scoppieremmo a ridere.
Ebbene, il Lussemburgo è tra i tre stati dell’Unione europea ad aver lanciato l’idea dell’Europa “a due velocità”. Il Lussemburgo è uno Stato per modo di dire, conta mezzo milione di abitanti circa, quanti ne ha Genova. Perché non scoppiamo a ridere?
Perché Lussemburgo e Olanda sono stati mandati avanti dalla Germania, che infatti si è poi espressa — al vertice di Malta di qualche giorno fa, e per bocca della Cancelliera Merkel — a favore dell’ipotesi: “Abbiamo imparato dalla storia degli ultimi anni — ha dichiarato — che ci potrebbe essere un’Europa a differenti velocità e che non tutti parteciperanno ai vari passi dell’integrazione europea. Ritengo che questo potrebbe essere incluso nella dichiarazione di Roma”.
Al terzetto si è aggiunto uno Stato del “club Med”, uno dei reprobi per manifesta incapacità di tenere in ordine i conti pubblici: il Portogallo.
La maionese europea è ufficialmente impazzita, e il venticinquesimo anniversario della firma del Trattato di Maastricht, che cade oggi, non sarebbe potuto capitare in un momento più desolato per l’idea originaria dei padri fondatori dell’Unione europea, quelli che credevano in un’unione di ideali e di popoli, un’unione della solidarietà e non della discriminazione, dove le regole, pur giustamente rigide, per l’integrazione avrebbero dovuto essere accompagnate dalla solidarietà.
Invece, è andata com’è andata: la Germania ha riciclato il suo plurisecolare egemonismo dal terreno militare, trasferendolo sul piano economico. Ha gonfiato all’inverosimile il suo surplus commerciale. Ha saturato la sua forza lavoro con una piena occupazione costruita però sui bassi salari che non ha alimentato la domanda interna. La nascita dell’euro ha scandito, a tutto beneficio della Germania — che già dalla fusione Ovest-Est aveva ricavato il grande vantaggio di una svalutazione del marco occidentale — una situazione di oggettivo ulteriore vantaggio valutario, perché la coabitazione dentro la moneta unica di economia molto meno floride — quelle appunto, dei Paesi mediterranei — ha contribuito a mantenere artificiosamente basso il cambio verso le altre valute mondiali, agevolando la poderosa macchina dell’export tedesco.
Ora che si riparla di “due velocità” per l’Europa, i più — compresi Romano Prodi e ieri, e autorevolmente, il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi — ribadiscono che “l’euro è irrevocabile”, come se le due velocità potessero essere introdotte e regolate in una sede diversa dall’unica che oggi unisce i diciotto Stati dell’eurozona (Austria, Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna).
Con tutta evidenza non sarà così. Questione di tempo — ma non tanto tempo: mesi, non anni — e secondo la maggior parte degli economisti, anche quelli che lo dicono soltanto a bassa voce, l’attuale sistema salterà, e non saranno rose e fiori per nessuno, tantomeno per i Paesi più fragili come l’Italia: gli errori e gli sprechi si pagano.
Dice oggi Draghi, giustamente, che “il mercato unico non sopravviverebbe alle continue valutazioni” di due o più monete diverse. Infatti. Ma non sopravvive nemmeno come sta vivendo oggi. Per Draghi, l’economia dell’eurozona ha ancora bisogno del sostegno della Bce, ma i tedeschi non gli fanno fare altro che irrorare il mercato con 80 miliardi di “quantitative easing” al mese, utili ma non risolutivi contro le tensioni economico-sociali che hanno dato benzina ai populismi e al nazionalismo.
L’origine dei mali risiede nello spirito che ha dettato le venticinquennali regole di Maastricht. Partire dalla moneta e non dalla politica: una follia. Avallate dagli spiriti europeisti più “puri”, convinti che i vincoli sarebbero serviti a imporre a tutti una disciplina che non risiedeva in ugual misura nelle premesse sociali e culturali dei vari popoli, quelle regole si sono rivelate un cappio. Come diceva Ciampi, l’Unione europea e l’euro erano il “chiodo” al quale vincolare la “scalata” dell’Italia verso un governo virtuoso dell’economia. Ma ai chiodi ci si può anche impiccare, e così pare oggi a molti, troppi elettori di molti, troppi Stati dell’Unione.
Indubbiamente, senza la crisi dapprima finanziaria e poi economica divampata nel mondo dal 2008 in poi — più grave di quella del ’29 — l’Unione europea e la sua moneta unica vivrebbero oggi tempi migliori. E d’altra parte se quella crisi avesse investito un’Europa fatta ancora di Stati monetariamente autonomi li avrebbe squassati ben più di quanto abbia fatto: ma i mali evitati possiamo soltanto immaginarli, quelli subiti li misuriamo sulle ferite della disoccupazione e dell’impoverimento di intere nazioni e di vaste fasce della popolazioni in molte altre. Il capolinea è nelle cose. E nessuno sembra sapere, oggi, su quale nuova corsa potrà salire l’economia del Vecchio Mondo.