Deflazione addio, la ripresa batte alle porte. Ma guai a cantar vittoria o, peggio, a rinnegare le politiche che ci hanno fatto riemergere dalla crisi più gravi del dopoguerra. È questo il segnale lanciato ieri da Mario Draghi nella conferenza stampa seguita al direttorio della Bce. In sintesi:
1) Per la prima volta da quattro anni le stime sull’inflazione Ue si sono avvicinate all’obiettivo previsto dallo statuto (poco sotto il 2%). Nel corso del 2017 l’aumento dei prezzi, spinto dall’energia, arriverà all’1,7%, in rialzo rispetto all’1,3% già previsto a dicembre. Anche sul fronte della crescita non mancano dati positivi: la crescita media dell’area, secondo gli esperti di Francoforte, salirà fino all’1,8% (anche se in Italia, purtroppo, la crescita potenziale non sembra in grado di superare l’asticella dell’1%). Nel 2018/19 la velocità di crociera, salvo nuovi interventi, tornerà a un tasso dell’1,6-1,7%.
2) Data la situazione, ha detto Draghi, “abbiamo constatato che non esiste più quel tipo di urgenza per ribadire la necessità di intervenire, se necessario, con nuove iniziative”. Perciò scompare dalla “guidance” della Bce, la frase in cui si dice che “se necessario, il Consiglio è determinato ad agire”. Non sono più necessari i prestiti diretti alle banche nell’ambito del Tltro (l’accesso al credito non è più un problema drammatico) e ad aprile gli acquisti di titoli da parte della banca centrale potranno scendere, come previsto, da 80 a 60 miliardi al mese.
3) Ma guai a dedurre da questi segnali che la Bce è pronta ad abbassare la guardia. Non meno importante era trasmettere ai mercati il messaggio che Draghi non aveva alcuna intenzione di piegarsi alle pressioni in arrivo dalla Germania a proposito del Quantitative easing e della politica dei tassi zero osteggiata da Wolfgang Schaeuble per i costi elettorali inflitti ai conservatori tedeschi. Per più motivi.
1) Innanzitutto perché si è trattato di una politica di successo: l’allentamento della politica monetaria, ha detto Draghi, ha consentito la creazione di 4,5 milioni di posti di lavoro. I numeri dell’occupazione sono i più alti dal 2009, mentre la fiducia è risalita ai livelli del 2011, prima dell’avvio della fase più delicata della crisi.
2) Ma, soprattutto, l’Unione europea resta a metà del guado. Ci sono segnali di miglioramento, ma la congiuntura resta debole. Non sono affatto da escludere ricadute, anche a fronte di una situazione internazionale che presenta più di un rischio. Per superare la crisi occorre ancora il salto di qualità decisivo: l’aumento dei salari. Le buste paga nell’Eurozona devono tornare a crescere. “L’aumento dei salari – ha detto il presidente della Bce – è il vero cardine di una crescita sostenibile dell’inflazione. È un elemento decisivo. Certo non l’unico, ma insostituibile”. Solo così, è il ragionamento, l’Unione europea potrà avere un futuro solido contro le tendenze centrifughe che trovano alimento nel malessere sociale.
3) È questo, probabilmente, l’obiettivo che mister euro si propone per l’ultima parte del suo mandato che scadrà a fine 2018: contribuire a un’Europa che, liquidata la fase dell’austerità, sia in grado di offrire di nuovo ai suoi cittadini un orizzonte di crescita e di protezione sociale dalla precarietà.
4) I mercati hanno apprezzato i messaggi in arrivo dalla Bce. Sono salite le Borse, si è apprezzato l’euro e si è ridotta la volatilità dei titoli del debito. Nel frattempo i governi dell’Ue hanno confermato il polacco Donald Tusk ai vertici del Consiglio d’Europa, contro il parere del governo euroscettico di Varsavia. E, per la prima volta, il filoeuropeo Emmanuel Macron balza in testa ai sondaggi delle presidenziali francesi, sopravanzando Marine Le Pen. L’Europa, insomma, rialza la testa. E mister euro è pronto ad accelerare.