Sapete quanto spende lo Stato italiano annualmente per la sanità? Oltre 100 miliardi di euro, circa il 7-8% del Pil. Bene, sapete quanto spendono gli italiani in slot machines e altri giochi d’azzardo? Circa 95 miliardi di euro l’anno. Una ricerca del 2012 del Conagga stimava che in Italia vi fossero 1 milione e 720 mila giocatori a rischio e ben 708.225 giocatori adulti patologici: a questi occorreva sommare l’11% dei giocatori minorenni (oltre 1 milione, stando a una ricerca Cnr), definibili patologici o a rischio. I costi sociali causati dai giocatori d’azzardo patologici comprendevano i costi sanitari diretti per un ricorso al medico di base più alto (+48%) rispetto ai non giocatori, i costi indiretti per la perdita di performance lavorative e di reddito (-28%) e i costi per un peggioramento della qualità della vita: in totale si stima ammontino dai 5,5 miliardi ai 6,6 miliardi di euro. Ma al netto di questo, lo Stato italiano dimostra una palese incentivazione del gioco d’azzardo, anche attraverso un’insidiosa deregulation in atto ancora oggi, basti vedere la moratoria al riguardo cui sta pensando la Regione Liguria. «Perché ci guadagna», dicono in molti. In realtà anche la questione del guadagno dello Stato non regge granché, facendo bene i conti. Lo Stato, contrariamente a quello che si potrebbe credere, ci guadagna sempre meno.
Infatti, come dai dati riportati sempre dal dossier del Conagga, se nel 2004 con un giro d’affari di 24 miliardi l’Erario ha incassato 7,3 miliardi di euro, nel 2012 con un giro d’affari stimato intorno ai 94 miliardi, ovvero quasi quintuplicato, l’Erario ha incassato 7,9 miliardi. Appena 600milioni di euro in più del 2004. Questo si spiega tenendo conto del fatto che i nuovi giochi introdotti, ovvero quelli online e le video lottery, sono molto meno tassati rispetto ai giochi più vecchi come Lotto e Superenalotto. Se infatti il vecchio Superenalotto restituisce allo Stato il 44,7% degli introiti, la tassazione su giochi online e video lottery va dallo 0,6% al 3% del fatturato. Ma il danno per le casse dello Stato non si esaurisce con il mancato introito della tassazione sui giochi: come anticipato, c’è da sottrarre ancora i costi delle conseguenze sociali del gioco tra spesa sanitaria diretta, cure mediche e psicologiche, costi indiretti, come perdita del lavoro e quindi del reddito, costi di perdita della qualità della vita, ovvero quelli che ricadono sulla famiglia del giocatore, come violenza in famiglia.
Vi chiederete, perché Bottarelli si lancia in questo parallelismo? Semplice, per farvi capire che le cifre, in economia, sono soltanto numeri, non sono valori assoluti: quindi, i provvedimenti che i governi prendono, al netto dei proclami e degli annunci, a volte non solo non servono a niente, ma, spesso, si tramutano in prese in giro o pericolose cortine fumogene. Prendiamo quanto accaduto l’altro giorno al Senato, dove è arrivato il via libera definitivo al disegno di legge delega per il contrasto della povertà che introduce il reddito di inclusione. L’Aula di Palazzo Madama ha approvato il ddl – che aveva ottenuto il disco verde della Camera a luglio scorso – con 138 sì, 71 no e 21 astenuti e con il “sì” finale del Parlamento il testo diventa legge: la palla passa di nuovo al governo, con il ministro Giuliano Poletti che ha promesso tempi rapidi per l’unico decreto di attuazione necessario.
Il reddito di inclusione, figlio della sperimentazione regionale del Sia e prossimo strumento accentratore delle varie iniziative di lotta alla povertà, prevede una dotazione di 1,6 miliardi, che il ministro Poletti ha innalzato a quota 2 miliardi «considerando anche le risorse europee». Questi denari, prevede specificatamente la delega, dovranno esser distribuiti solo dopo la prova dei mezzi: l’Isee sarà necessario per accedere al supporto. Il ministro punta a raggiungere 400mila famiglie con figli minori a carico, che tradotti in persone significa 1,77 milioni di teste. Rispetto al Sia, l’assegno dovrebbe essere portato da 400 a 480 euro mensili, ed è probabile che vengano trasferiti ai destinatari in forma di carta prepagata. Nel solco del difficile rilancio delle politiche attive, chi riceverà il sostegno dovrà sottoscrivere un patto con la comunità, che va dal buon comportamento civico all’accettazione delle proposte di lavoro che possono essere girate dagli sportelli regionali.
Direte voi, meglio che niente. E sono assolutamente d’accordo. Peccato che in perfetta contemporanea con l’ennesimo provvedimento spot del Senato, il medesimo governo stia per cedere all’innalzamento dell’Iva per arrivare a un compromesso con le richieste della Commissione Ue. Quindi, quei pochi denari, maledetti e subito, verranno bruciati prima ancora che escano dal portafoglio di chi li riceverà per tamponare l’aumento dell’imposta principe, la stessa vincolata dalla clausole d salvaguardia e che ora verrà ritoccata all’insù per tamponare le mancette elettorali del governo Renzi in vista del referendum costituzionale dello scorso dicembre. Stando alle indiscrezioni che giungono da Roma, infatti, nel Documento di economia e finanza che il governo Gentiloni si accinge a varare, c’è sì la correzione dei conti promessa alla Commissione europea, con tanto di taglio del cuneo fiscale, ma anche l’aumento dell’Iva.
Dalle bozze del Def che vedrà la luce in aprile, infatti, emerge innanzitutto che l’entità della manovra per il 2018 arriverà a quota 24/25 miliardi. Tutto dipende dalle famose clausole di salvaguardia, la garanzia alla coperture di misure varate dal 2011, che consiste appunto in aumenti di Iva e accise. Di fatto, la prossima legge di Bilancio non li sterilizzerà. Scatteranno, del tutto o in parte. Certo, in ossequio alla continuità politica, c’è la conferma del bonus da 80 euro, il quale sarà rifinanziato e inserito, nei suoi effetti finanziari, nel Def. Ci sarà poi il taglio del cuneo fiscale da 1,5 miliardi, di fatto un probabile taglio strutturale ai contributi per i nuovi assunti: anche in questo caso, un abboccamento con la decontribuzione voluta da Renzi e spacciata come ricetta miracolosa. Salvo poi vederne i limiti, una volta terminato il periodo di intervento. Ma nel menu del Def, al momento, c’è anche l’aumento dell’Iva nella sua versione più radicale: due punti in più per l’aliquota ordinaria, oggi al 23% e di quella intermedia agevolata che al momento è al 10%. Un salasso da 4 miliardi di euro, necessario a finanziare tutte le altre misure.
Certo, la trattativa sul deficit con Bruxelles serve proprio a evitare che l’applicazione delle clausole di salvaguardia, quindi l’aumento di Iva e accise, sia completa, optando per un compromesso al fine di ottenerne una versione soft, la quale contempli aumenti mirati solo per alcune categorie di merci, che passerebbero dall’aliquota intermedia a quella ordinaria. Comunque andrà a finire, le roboanti misure anti-povertà e pro-occupazione del governo saranno fagocitate dalle manovre lacrime e sangue che ci imporrà a breve l’Europa: io capisco che l’anno prossimo si va alle urne, quindi occorre vendere fumo ma questa volta si rischia grosso, perché il Paese è allo stremo e dubito che verranno accettati supinamente nuovi salassi.
C’è poco da fare, la realtà è testarda: o questa Europa la si mette in discussione radicalmente o smettiamola di prendere in giro la gente. E vale per tutti, non soltanto per il governo Gentiloni. Questa volta non ci sarà spazio per altri calci al barattolo, conviene saperlo da subito. E, magari, prendere qualche contromossa al riguardo. Prima che sia tardi, prima di dover piangere nel vedere i grillini entrare a Palazzo Chigi.