La crisi del Sole 24 Ore è essenzialmente industriale ed è nota da tempo. Si sono chiusi in perdita – in tutto per 300 milioni – tutti gli ultimi sette esercizi: quelli in cui al vertice hanno via via operato l’ex presidente Benito Benedini, l’ex amministratore delegato Donatella Treu e il direttore in carica, Roberto Napoletano. I tre sono stati riaggiunti venerdì da avvisi di garanzia emessi dalla Procura di Milano per ipotesi di false comunicazioni sociali (altri sette ex manager del gruppo sono indagati per appropriazione indebita). Il caso giudiziario riguarda centinaia di migliaia di copie cartacee o digitali che sarebbero state dichiarate come realmente vendute, mentre sarebbero circolate in modo solo fittizio presso società-ombra domiciliate in Gran Bretagna. Con le presunzioni di innocenza dovute per un’indagine appena iniziata, la vicenda – mediaticamente reale – appare l’effetto, non la causa della crisi del Sole.



Tutti i gruppi editoriali italiani (come del resto tutte le imprese italiane, di cui il Sole si sente tuttora il baricentro giornalistico) hanno dovuto far fronte a una pesantissima recessione interna. Quest’ultima ha accelerato e moltiplicato la pressione di lungo periodo del mercato editoriale: la digitalizzazione globalizzata ha messo in crisi strutturale gli editori tradizionali, non solo italiani. Ma quasi tutti hanno cercato di reagire.



Il Financial Times – di cui Il Sole 24 Ore si è sentito a lungo concorrente diretto – è stato venduto dalla britannica Pearson (focalizzata sull’editoria scolastica) a Nikkei, gigante editoriale-finanziario giapponese; ed è stato completamente ridisegnato come web-medium. La sua offerta business digital (una miniera di contenuti online aggiornati in tempo reale, esclusa solo la consegna della copia quotidiana cartacea) costa 9,5 euro alla settimana: il Sole, per la copia tradizionale sfogliabile e contenuti digitali del tutto non confrontabili e tutti in italiano, chiede 7,5 euro a settimana.



Neppure in Italia, tuttavia, la media industry è rimasta immobile. Espresso-Repubblica si è fuso con Itedi (La Stampa-Il Secolo XIX). Rcs, dopo un’Opa, è passata sotto il controllo di un editore professionale. Urbano Cairo notoriamente, non crede molto nel digitale: è poco convinto che un prodotto tradizionale italiano – come il Corriere della Sera – possa migrare sulla rete mantenendo un conto economico soddisfacente, nel breve e nel medio periodo. Per questo sta puntando con decisione sul “nuovo cartaceo”: con un mix tendenziale di aumento del contenuto-media offerto e di riduzione del prezzo. Per coincidenza alla fine non paradossale domani il Sole 24 Ore sarà ancora assente in edicola o sul web (i giornalisti stanno scioperando a oltranza contro il direttore) mentre il Corriere della Sera lancerà il suo inserto economico del lunedì completamente riprogettato a arricchito. Un occhio alla qualità e allo stile-Corriere, l’altro alla ripartenza del mercato della comunicazione aziendale.

Il Sole 24 Ore, in questi anni, ha fatto davvero poco per cambiare: prodotti, canali, struttura di costi, organizzazione del lavoro giornalistico, dirigenza, approccio complessivo al mercato. Da cinque anni il giornale della Confindustria è sussidiato (da Inps e Inpgi, la cassa previdenziale di editori e giornalisti). E le indiscrezioni che filtrano dall’inchiesta della Procura ipotizzano ora che presidenza, top management e direzione abbiano imboccato scorciatoie di dubbia legalità pur di sostenere le cifre ufficiali della diffusione del Sole, al fine di puntellarne l’appetibilità pubblicitaria (dal giugno scorso proprio il “caso Sole” ha suggerito all’Ads di non certificare più le cosiddette “copie digitali multiple”).

La crisi industriale ha quindi indotto, al vertice del gruppo di Viale Monte Rosa, una crisi di governance e di management. I vertici di un’importate gruppo quotato in Borsa, controllato da Confindustria per editare il più importante organo d’informazione economico-finanziaria hanno cominciato a deviare dalle buone pratiche di gestione d’impresa e di legalità societaria. Fino a quando – nel più classico rituale italiano – è arrivata la “Guardia di finanza mandata dalla Procura” a certificare un fallimento: forse civile, oltreché aziendale, grave quanto i dissesti bancari più o meno conclamati che stanno scuotendo l’Azienda-Paese.

“Com’è stato possibile, come mai nessuno ha visto o prevenuto?”, chiederebbe la regina Elisabetta. Ci sono pochi dubbi, almeno per chi è diligente lettore del Sole: chi avrebbe potuto e dovuto vedere e prevenire è la Confindustria, tuttora socio di maggioranza assoluta del Sole. E maggior centrale associativa dell’imprenditoria italiana. Il Gruppo 24 Ore è – assieme alla Luiss – l’unica attività direttamente gestita da Viale dell’Astronomia. In superficie la condirezione, oggi presieduta da Vincenzo Boccia, è spaccata dagli strascichi dell’ultimo rinnovo del vertice: allorché l’industriale grafico salernitano è divenuto successore di Giorgio Squinzi prevalendo per pochi voti sull’emiliano Alberto Vacchi.

Quets’ultimo era sponsorizzato da Assolombarda e da alcune importanti associazioni del Nord, mentre su Boccia si sono orientati – fra l’altro – i “nuovi padroni” di Confindustria: quei gruppi pubblici che, nella primavera 2016, erano ancora pilotati dal governo Renzi. Non è un caso che Boccia sia stato uno fra i più solleciti sostenitori del Sì all’ultimo referendum. La sconfitta di Renzi e quindi del neo-collateralismo di Confindustria al governo in carica hanno gettao benzina sulle braci interne: quelle delle rivalità personali, quelle della crisi profonda di un importante “corpo intermedio” in Italia. Anche questo ha finito per scaricarsi sul Sole 24 Ore: che non ne aveva bisogno. E che ora ha invece bisogno di capitali per ripianare le perdite e reinvestire sul rilancio e di un editore industriale in grado di ricostruire l’azienda e i suoi media. Non c’è dubbio che il compito di Confindustria sia assicurare al più presto, immediatamente, queste due condizioni. Ritrovando anche se stessa.