Due velocità, due o forse più: l’Unione europea dovrebbe ripartire così. Lo vuole Angela Merkel, la seguono i governi di Francia e Italia. Una scelta dettata dal realismo, un svolta rispetto a un lungo periodo, cominciato con la caduta del Muro di Berlino, all’insegna di un allargamento continuo fino ai confini con la Russia, e delle decisioni all’unanimità. Chi vuole e chi può, avrà la possibilità di andare avanti verso una maggiore integrazione; la difesa e la sicurezza dovrebbero essere i terreni sui quali compiere un nuovo cammino federale.
L’ultimo Consiglio europeo, dunque, avrebbe posto le basi di questa nuova fase che dovrebbe trovare una sanzione ufficiale il 25 marzo a Roma nella celebrazione di quel Trattato che nel 1957 ha dato il la a una nuova fase storica nel Vecchio continente per secoli dilaniato da divisioni, odi, guerre. Il paradosso è che tutta questa impalcatura dipende dai risultati elettorali proprio nei tre paesi promotori.
La Francia andrà alle urne per prima il prossimo mese. Il risultato è incerto, soprattutto perché François Fillon, il candidato del Parti Républicain, si è fatto male da solo impiegando la moglie come assistente e pagandola con i soldi pubblici. I sondaggi danno l’outsider di centro-sinistra Emmanuel Macron testa a testa con Marine Le Pen, dunque tutto si gioca nel secondo turno dove è molto probabile che si ricrei una convergenza anti-lepenista. Se sarà così, ci saranno conseguenze a catena anche nella politica italiana.
Se ne parla soprattutto nel centro-destra dove è cominciato un processo di ricomposizione che potrebbe cambiare gli scenari, disegnati con troppo semplicismo, secondo i quali la partita avrebbe solo due giocatori: un Beppe Grillo colpito ma tutt’altro che affondato dai pasticci romani (e dalle conraddizioni che si stanno aprendo anche a Torino) e un Matteo Renzi rilanciato dal congresso del Pd. L’ipotesi che matura a destra è la seguente: un mancato successo del Front National riapre la dialettica interna alla Lega. Umberto Bossi è già in manovra insieme a Roberto Maroni e con il sostegno di Luca Zaia, per un congresso che sanzioni la sconfitta della linea lepenista di Matteo Salvini. A quel punto, il progetto al quale sta lavorando Silvio Berlusconi può prendere corpo. Giorgia Meloni è già d’accordo e con un sistema elettorale proporzionale come quello con il quale quasi certamente si andrà al voto, non c’è bisogno di creare coalizioni ex ante, né di avere un candidato premier. Ma certo occorre una intesa di fondo e ci vuole anche una figura unificante che possa prendere in mano il governo. Oggi come oggi ancora non è emersa, però c’è tempo.
Se la destra riuscirà a rimettersi insieme su una piattaforma governativa e moderata, gli equilibri odierni cambieranno rapidamente. È molto probabile che tornino a casa gli elettori i quali da destra hanno dato il loro voto ai pentastellati in segno di protesta. È vero che la disgregazione della sinistra potrebbe rialimentare i grillini, ma la proliferazione di partiti e movimenti oltre il Pd (dai dalemiani a Pisapia più le altre frange) è destinata a intercettare gli scontenti chiudendo la porta a sinistra del Movimento 5 Stelle. Dunque, il ridimensionamento di Grillo e la frantumazione gauchiste offrono un’occasione concreta perché un centro-destra riorganizzato e riunito possa vincere.
Con una Francia guidata da un presidente europeista e una Germania dove è probabile che si formi di nuovo una grande coalizione (magari guidata da Martin Schulz), il progetto di Unione a più velocità può realizzarsi. L’onda populista sarebbe destinata a un naturale riflusso e l’Italia si troverebbe a dover affrontare le sue debolezze intrinseche per restare agganciata al nuovo asse Parigi-Berlino. La situazione economica sta migliorando e potrebbe rendere le cose meno difficili.
Il nuovo governo dovrà affrontare con maggiore energia la quesitone del debito, ma se il prodotto lordo nominale, che tiene conto di un’inflazione in ripresa, s’avvicina a una crescita di tre punti percentuali, anche il debito può cominciare a scendere (a condizione che la campagna elettorale non riproponga un assalto alla diligenza). La disoccupazione resta la ferita più grave, tuttavia oggi non è l’economia a preoccupare per la tenuta del Paese, semmai è la politica, sia in termini di consenso e legittimazione dei partiti, sia come capacità di gestire i conflitti sociali e offrire ai cittadini una meta realistica verso la quale rivolgersi.