Quello che si è appena concluso è stato un fine settimana molto denso e interessante dal punto di vista politico. Matteo Renzi ha dato il via alla sua campagna elettorale per le primarie dal Lingotto di Torino, Matteo Salvini ha tenuto il suo discorso alla Fiera d’Oltremare di Napoli, varcando il Rubicone politico della linea Gotica bossiana e Silvio Berlusconi è tornato prepotentemente in campo, lanciando le linee guida di Forza Italia per tornare al governo del Paese. Silenti i Cinque Stelle e già questo pare una buona notizia.
Al netto dei dati di cronaca nera e del fatto che in Italia esistano sindaci che possano tranquillamente farsi beffe dell’articolo 414 del codice penale, blandendo gente che lancia molotov e sassi contro le forze dell’ordine, è il dato dello scontro politico-economico a farsi interessante. In perfetta contemporaneità, infatti, sabato abbiamo assistito a una sorta di duello a distanza tra il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e Silvio Berlusconi rispetto al futuro dell’Italia nei confronti di Europa ed euro, un qualcosa che travalica gli aspetti nominalistici, come ad esempio l’agitare lo spauracchio di sinistra del ministro Martina per sancire l’allontanamento del Pd renziano dagli alleati centristi, sfoderando il termine “compagno” a ogni piè sospinto come in un film di Virzì.
Parlando ai giovani di Forza Italia, l’ex premier ha tracciato il solco della nuova stagione del centrodestra: si parte dal grande capitolo “meno tasse”, che si declina in “nessuna tassa sulla casa, sulla prima auto e sulla successione”, per arrivare a meno Stato, che si può ottenere con burocrazia zero, a partire dall’abolizione delle autorizzazioni preventive per chi vuole aprire un’impresa (“Alla fine arriva una commissione di controllo per verificare se è tutto in regola, ma intanto si parte, io aspetto licenze da 42 anni”), la chiusura (“vera”) di Equitalia e l’innalzamento dei pagamenti in contanti a 8mila euro. Ma ecco poi la sponda a Matteo Salvini: “Meno Europa” è infatti il punto d’incontro formale con il “No euro” del segretario della Lega Nord, tanto che Forza Italia propone la “seconda moneta nazionale, la nuova lira diventerà la nostra moneta corrente, mentre l’euro si userà per il commercio da e verso l’estero”. Poi no al bail-in per le banche (peccato vada ridiscusso in sede europea, visto che abbiamo detto di sì) e no a politiche di austerità (anche in questo caso, sarebbe interessante vedere come Berlusconi porterà avanti l’argomento in sede Ppe e con Tajani presidente dell’Europarlamento).
Ma come vi anticipavo, negli stessi minuti a Torino interveniva il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ed ecco le sue parole: “Di questi tempi vanno molto di moda scenari apocalittici sulla Ital-exit. Mi fanno rabbrividire. Chi fa queste proposte non ha nessuna idea dei danni economici, sociali, culturali, che andrebbero a colpire i normali cittadini, tutti noi, tutti voi. Noi non lo faremo succedere”. Insomma, siamo a uno scontro frontale tra due concezioni economiche? Il centrodestra, pur di trovare un’unità in vista del voto, è pronto all’avventurismo sulla moneta, mentre il centrosinistra chiude il capitolo di collaborazione con i centristi, anche in ossequio alla richiesta dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, il quale presentando il suo “Campo progressista” ha detto chiaro e tondo che Renzi non è il nemico ma deve scegliere con chi allearsi?
Attenti alla polarizzazione mediatica dello scontro: le parole circolate durante questo weekend vanno soppesate alla luce della realtà e, al netto di questa, resta molto poco. Forse solo la tara. Una ridiscussione radicale dell’euro e delle regole europee passa inevitabilmente da un unico risultato, ovvero la vittoria di Marine Le Pen alle presidenziali francesi: succederà? No, impossibile. Con quale sostegno, quindi, un’eventuale Italia a guida centrodestra andrà a Bruxelles a chiedere un opt-out che garantisca la circolazione di una doppia moneta? E il nostro debito, in quale valuta sarà denominato, quella degli scambi commerciali o quella della circolazione interna? Con quale valuta pagheremo gli interessi su quel debito? Sarà un nuovo governo Berlusconi, ammesso e non concesso che Salvini faccia un passo indietro, a sancire la crisi definitiva dell’Unione, dopo lo strappo senza precedenti consumatosi venerdì scorso tra Paese core e Paesi dell’Est, una contrapposizione talmente dura da portare addirittura alla decisione di non dar vita alla foto finale di rito?
Ci rendiamo conto che siamo nella fase più critica dell’Ue, addirittura peggiore e più seria di quella del 2011? Il tutto con una crisi diplomatica in piena regola con la Turchia rispetto ai comizi di politici di Ankara nei Paesi europei a maggior presenza di cittadini turchi in vista del referendum costituzionale del 16 aprile prossimo, lo stesso che garantirebbe di fatto a Erdogan poteri quasi da dittatore assoluto. Qualcuno vuole tirare Ankara per la giacchetta al punto da farle mettere in discussione l’accordo sui migranti, ora che l’arrivo della primavera sta per spalancare le porte a nuove traversate di massa del Mediterraneo? Qualcuno ha interesse ad accelerare la crisi europea, quando ci troviamo solo a 48 ore dal voto politico in Olanda, con le strade di Rotterdam piene di cittadini turchi che protestano, gridando “Allah Akbar” e Geert Wilders sempre più probabile vincitore con il suo partito anti-immigrati e anti-Islam? Qualcuno vuole subito uno strike nel bowling politico europeo, in vista del voto francese di aprile e quello tedesco di settembre? E quale risposta dà l’Italia a questa situazione, Padoan che parla di Ital-exit, Berlusconi che agita la doppia moneta come un Pagliarini qualsiasi e Salvini che grida fuori dall’euro?
Mentre i nostri principali politici lanciavano le loro proposte per il futuro, qualcuno ci diceva che il 2017 inizia in salita per le aziende italiane. Stando ai dati forniti da Unimpresa, lo stock di prestiti delle banche alle imprese è calato di oltre 15 miliardi di euro (-2%) rispetto ai 12 mesi precedenti, nonostante l’aumento di oltre 11 miliardi dei finanziamenti a medio termine. A pesare sulla discesa è la diminuzione di oltre 14 miliardi dei finanziamenti a breve e di 12 miliardi di quelli di lungo periodo. In aumento di 5 miliardi, invece, i prestiti alle famiglie spinti dal credito al consumo (+5 miliardi) e dai mutui (+6 miliardi). In totale, gli impieghi al settore privato sono diminuiti di 10 miliardi, passando da 1.410 miliardi a 1.400 miliardi negli ultimi 12 mesi: quasi un miliardo al mese in meno ad aziende e cittadini. Stando al rapporto di Unimpresa, nello stesso periodo in esame le rate non pagate (sofferenze) sono leggermente calate: nell’ultimo anno si è registrato una riduzione di quasi 4 miliardi (-2%).
E qui il problema si fa serio: perché l’Italia si basa su una spina dorsale fatta di piccole e medie imprese, aziende che non beneficiano del Qe di Mario Draghi per finanziarsi attraverso l’emissione obbligazionaria corporate, bensì campano unicamente grazie al prestito bancario. E siccome tutti quanti sappiamo quale sia la situazione delle nostre banche, tra sofferenze e detenzioni di debito sovrano, appare quantomeno lunare parlare di doppia moneta, quando si rischia di veder collassare centinaia di Pmi schiacciate dal peso dei debiti e dall’incapacità di finanziare la loro operatività. Forse qualcuno è così pazzo da scommettere su una convergenza post-elettorale tra centrodestra e M5S, con la fusione tra doppia moneta berlusconiana ed eurobond grillini?
Qualcuno suoni la campanella e dica ai nostri politici che la ricreazione è finita e la questione vale per tutti: destra e sinistra, centro non pervenuto. Tanto più che, se Berlusconi delira di doppia moneta sapendo di non poterlo fare, per Matteo Renzi è davvero difficile dire sì a Gentiloni e no a nuove tasse, come ha fatto sabato nell’intervista rilasciata a La Stampa. Perché a legislazione invariata, cioè se il governo in carica non modificherà le decisioni prese dai predecessori, le tasse aumenteranno eccome. Ce lo conferma il promemoria sull’andamento dei grandi numeri delle finanze pubbliche, il cosiddetto “Bilancio semplificato” della Ragioneria generale dello Stato: di fatto, una sintesi delle previsioni sugli andamenti dei conti pubblici che precede la pubblicazione del Def, il documento di economia e finanza. Quello del governo Gentiloni arriverà in aprile e conterrà gli effetti finanziari della prossima legge di bilancio, compresi quelli di misure come il taglio del cuneo fiscale e l’aumento dell’Iva. Se l’esecutivo in carica non dovesse fare nulla, tra il 2017 e il 2019 le entrate dello Stato aumenteranno comunque di circa 30 miliardi: nel complesso, passeranno dai 523 miliardi di quest’anno ai 552,9 del 2019. Le entrate tributarie, cioè tasse e imposte, passeranno da 463 miliardi a 497,6 nel 2019, per poi sfondare il muro dei 500 miliardi a partire dal 2020. Il tutto mentre la spesa corrente, nelle previsioni del governo, dovrebbe scendere: dai 502,6 miliardi al netto degli interessi sul debito, a 492,2 del 2019. In calo anche la spesa per gli interessi sul debito, da 79 a 76,7 miliardi di euro, grazie al Qe di Draghi, il quale però non potrà durare in eterno.
Gli aumenti delle tasse, insomma, sono già sulla carta. Perché invece di affrontare onestamente questi ostacoli, Padoan perde tempo a rincorrere la demagogia altrui, parlando di Ital-exit? E perché l’uomo della “rivoluzione liberale” gioca al demagogo della doppia moneta? Cercasi classe dirigente responsabile. In fretta, per favore.