Le nuove tecnologie digitali stanno certamente cambiando la società, ma in che direzione? E non c’è il rischio che la stiano semplicemente impoverendo, come temono in molti? Perché abbiamo meno imprese innovative della Germania, ma quelle poche crescono di più? Perché non riusciamo a fare sistema? Perché la Pubblica amministrazione non sa modernizzarsi? L’innovazione è fatta di domande, molte delle quali per ora senza risposte. E a queste domande-chiave si prefigge di rispondere l’Osservatorio congiunto Agi-Censis sull’innovazione patrocinio della Fondazione Cotec presentato pochi giorni fa a Roma. Agi e Censis realizzeranno nel corso del triennio 2017-2019 una ricerca permanente sui temi dell’innovazione Made in Italy. La piattaforma di riferimento sarà un grande sondaggio annuale, elaborato sulla base di un campione di popolazione italiana tra i 18 e gli 80 anni, e costituirà parte integrante del “Rapporto sulla Cultura dell’Innovazione”. «Oggi stiamo osservando», spiega Giorgio De Rita, Segretario generale del Censis e figlio del fondatore Giuseppe, «un cambiamento profondo della società, che è dettato da diversi fronti: grandi migrazioni, ferite della natura (terremoti, sgretolamento del patrimonio immobiliare) e, appunto, nuove tecnologie. Dobbiamo provare a leggere quali sono queste spinte innovative, come si possono cavalcare e come la società reagisce. Dobbiamo provare non tanto a delineare un fenomeno, ma piuttosto a capire quanto la società è disposta ad accompagnarlo e assecondarlo».
Quali sono – per usare un termine sempre più invalso – le keyword di questo cambiamento?
Il cambiamento è scandito da alcune parole chiave: la prima è disintermediazione, ovvero in tanti settori è venuta a mancare quella mediazione più o meno umana e professionale rete cui eravamo abituati. Basti pensare allo sportello della banca, che ora è accessibile attraverso home banking, o l’acquisto dei libri che avviene online. La seconda parola chiave è frammentazione: la società cambia perché oggi è possibile fare operazioni a bassissimo valore e prezzo, o ancora perché si è creato un sistema di relazioni molto più parcellizzato: oggi si partecipa al circolo dei genitori della scuola o agli appassionati della lirica frammentando la società. La terza keyword è benessere: nel senso che le nuove tecnologie hanno spostato il focus dalla ricchezza alla ricerca del benessere, nel senso di cura della persona o della sostenibilità ambientale. La risposta che poi diamo a queste parole chiave è un altro oggetto che va sondato.
C’è chi teme che questa trasformazione possa diventare un boomerang che tolga lavoro all’uomo per affidarlo alle macchine: abbiamo letto troppo Asimov o c’è del vero?
La società reagisce impaurendosi perché come ogni progetto di sviluppo la novità tende a cambiare la modalità di fare il proprio lavoro, frantuma le funzioni esistenti e inevitabilmente distrugge anche lavoro: lo sportellista della banca, per rifarci a quanto detto in precedenza, o cambia modo di lavorare o diventa inutile. Ma non bisogna neanche demonizzare questo processo: una stampante 3-D mi consente di trasferire un bene senza passare attraverso la catena di trasporto. Questa frantumazione distrugge lavoro da un lato ma ne crea dall’altro, se la stampante mi consente il teletrasporto di oggetti, ci sarà bisogno di chi saprà scriverne i software, per esempio.
Come vivere al meglio questa trasformazione?
Non si può semplicemente dire addio, come se fosse niente, al lavoro di vecchio tipo, ci vuole una fase transitoria e su questo fronte abbiamo letto alcune ipotesi: tassa sui robot, la Google Tax, la chiusura di alcune frontiere e altro ancora. La nostra chiave di lettura è quella di verificare queste e altre provocazioni. Sarebbe una tassa efficace quella sui robot? Dall’altro lato, vediamo anche la dimensione economica della tecnologia. Innovazione è sempre un concetto delicato nel nostro Paese: è vero, da un lato abbiamo piccole e piccolissime imprese ad alto contenuto innovativo, ma abbiamo anche un sistema della ricerca pubblica particolarmente scadente, non ci sono più progetti organici, o almeno si fa fatica a individuarne. Detto tutto questo, poi, c’è anche un problema strutturale dell’industria italiana: l’Italia ha il numero più basso di imprese innovative, è sceso del 9% negli ultimi cinque anni, mentre in Germania è cresciuto del 55%. Però, a fronte di un minore investimento realizzato, bisogna anche considerare un altro dato: oggi il fatturato medio per addetto delle industrie innovative italiane con più di 10 addetti è superiore a quello tedesco. Per racchiudere tutto in un’unica frase: questa trasformazione potrebbe produrre maggiore occupazione, cioè più di quella che sta producendo oggi. Se le aziende italiane avessero continuato a investire al ritmo di cinque anni fa, oggi avremmo 150.000 posti in più.
Una visione fosca o esistono “isole felici”?
Questi sono numeri che non riguardano l’intero sistema industriale: le macchine utensili automatizzate sono un fiore all’occhiello. L’industria italiana ha il 9% del mercato delle macchine utensili avanzate a livello mondiale. Isole felici ce ne sono, filiere che trainano ci sono, manca la dimensione sistemica, mettere insieme le esperienze, continuiamo a vedere troppa frammentazione. Un altro punto di caduta è la cosiddetta amministrazione digitale. Prendiamo la fatturazione elettronica: il nostro Paese è l’unico che l’ha introdotta in modo obbligatorio, come prescritto dall’Ue entro il 2018, noi l’abbiamo fatto con quattro anni di anticipo. Ma si tratta di un singolo intervento all’interno di un mondo frammentato. Che senso ha offrire alle famiglie in difficoltà l’ennesima social card?
Un tema molto caldo è quello del rapporto tra nuove tecnologie e Pubblica amministrazione: alcune città, come Milano, stanno procedendo a un progressivo ammodernamento dell’infrastruttura. Altre faticano a stare al passo con i tempi. Con una popolazione che diventa sempre più anziana, è giusto puntare sulla tecnologicizzazione della Pa?
Se ne parla tanto, mi sembra più una moda che un problema reale. Che l’Inps scarichi sulle famiglie la poca alfabetizzazione degli anziani è vero, ma non è che la diffusione dello smartphone sia così arretrata: siamo nella media europea. Esiste un problema di alfabetizzazione, ma non è il problema. Il problema sono i servizi che si appoggiano sulla carta d’identità elettronica. È vero che siamo sempre più anziani, ma non si ferma l’innovazione, non si può andare controcorrente. Non ha senso questo timore: allora i bambini non ce la fanno, i poveri neanche, gli immigrati nemmeno. Si prenda il bonus cultura: se non riesci a trovare un modo per far arrivare ai ragazzi i 500 euro del bonus cultura perché impieghi un anno, c’è qualcosa che non funziona. I ragazzini sono ipertecnologicizzati, tu hai tutto quello che serve. Un ragazzino di 15 anni viaggia a una velocità spaventosa, li spende subito, dopo un anno e tre mesi ancora non siamo riusciti? Non esiste. È un problema di visione delle cose che manca. A palazzo Chigi ci sono 6-7 strutture che dovrebbero occuparsi di questo tema, eppure continuiamo a navigare a vista: è una cosa singolare.
Innovazione è un termine vasto e di cui a volte ci si riempie la bocca: la sua definizione?
Per me l’innovazione è la capacità di seguire strade nuove, senza guardare ciò che è sbagliato o ciò che è già stato detto e fatto. Rompere uno schema consolidato. L’innovatore è uno che non sa che cosa è proibito. Nel nostro Paese bisogna concentrare gli sforzi su due temi nevralgici per l’innovazione: infrastrutture e burocrazia. Quanto al primo punto, non è possibile che non abbiamo realizzato e progettato un sistema di sviluppo a supporto delle nuove tecnologie. Era stato creato un piano triennale dell’amministrazione digitale (marzo-aprile 2013) ancora non è uscito, ora dicono che uscirà prima dell’estate: è semplicemente ridicolo! Il secondo punto: lasciare liberi, togliere i vincoli alle piccole e piccolissime imprese che investono e mettono coraggio. Torniamo ancora alla Pa: basta guardare la follia di concentrare tutti gli acquisti in Consip, è un modello che va contro la storia, freni la domanda pubblica e rendi tutto estremamente ingessato.
La quarta rivoluzione industriale, che stiamo vivendo con l’avvento delle nuove tecnologie, potrebbe riportare in auge il manifatturiero italiano che, dal 2010 a oggi, ha perso cinque punti percentuali di incidenza sul Pil?
Sicuramente oggi assistiamo per la prima volta a un ritorno del manifatturiero, l’avevamo un po’ abbandonato, abbiamo pensato che le fabbriche fossero brutte e cattive. C’è un grande ritardo negli investimenti e questo è un gap che va colmato e lo si può fare su due fronti: da un lato eliminando le strozzature nel pubblico e dall’altro attraverso un investimento di entusiasmo da parte delle famiglie e delle imprese che devono capire che stare fermi e accumulare risparmi non porta lontano. L’export è cresciuto del 4% nell’ultimo anno, le start-up (termine improprio) stanno riempiendo il vuoto che si è creato, vedremo un’industria diversa dal passato.
In ultima analisi: siamo pronti al cambiamento che stiamo vivendo?
L’Italia non è pronta e nessuna economia avanzata lo è. E questo è un bene, purché non ci adagiamo su questa impreparazione di partenza.
(Sergio Luciano)