Un primato l’Italia ce l’ha, nella classifica – per altri versi imbarazzante – degli Stati europei per virtuosità finanziaria pubblica. È il Paese che, dal ‘93 a oggi, ha privatizzato di più. Inutilmente: vendere beni statali per 180 mila miliardi di vecchie lire non ha impedito al debito pubblico italiano di salire dov’è oggi, al 133% del Pil, un livello stratosferico. Eppure ancora oggi c’è, al governo, chi pensa di continuare a curare questo malanno con la medesima, inutile medicina: privatizzando ancora, a casaccio, quel poco che resta da privatizzare, pezzetti delle Poste e addirittura della Cassa depositi e prestiti. Uno sguardo alla storia recente basta per capire quanto sarebbe assurdo.
Tutto ebbe origine – ricordiamocelo – dallo scellerato patto Andreatta-Van Miert, nel quale l’allora ministro degli Esteri dovette, o volle, accettare il diktat del Commissario europeo alla concorrenza. L’Italia aveva dovuto svalutare la lira nel settembre del ‘92, il governo Amato aveva infilato le mani direttamente nelle tasche dei risparmiatori con il prelievo del sei per mille dai conti correnti bancari – a tutt’oggi l’unica, per quanto stramba, tassa patrimoniale mai applicata in Italia – e le grandi centrali dell’industria di Stato, soprattutto l’Efim e l’Iri (o meglio al suo interno il comparto siderugico dell’Ilva, già lei!, tuttora in grave crisi) versavano in cattive quando non pessime acque.
In questo modo Vincenzo Visco, che fu in quegli anni ministro delle Finanze, ricostruisce quel periodo nel suo “Libro bianco sulle privatizzazioni”: «Un impulso determinante al processo di privatizzazione arrivò dall’Europa. Non era solo la grande pressione sul risanamento della finanza pubblica imposto dal Trattato di Maastricht (ratificato a fine ‘92, ndr) a spingere verso le privatizzazioni, strumento prezioso per ottenere risorse utili ad abbattere il debito pubblico. Due eventi specifici ebbero un effetto diretto sull’irreversibilità del processo. Il primo fu il cosiddetto “accordo Savona-Van Miert” (1993), che permise allo Stato italiano di varare la ricapitalizzazione della siderurgia – allora in grave crisi – a patto di una sua privatizzazione. Il secondo, di portata ben più ampia, fu il protocollo, siglato nell’estate del medesimo anno, dall’allora Ministro degli Esteri, Beniamino Andreatta e da Karel Van Miert, Commissario europeo alla concorrenza. Il protocollo impegnava il governo italiano a ridurre l’indebitamento delle imprese pubbliche fino a portarlo a “livelli fisiologici, cioè a livelli accettabili per un investitore privato operante in condizioni di economia di mercato”. Questo processo avrebbe dovuto concludersi entro la fine del 1996. L’accordo raggiunto in sede comunitaria, inoltre, non consentiva più la garanzia illimitata dello Stato, in qualità di socio unico, sui debiti delle società controllate al 100%, in quanto fattore distorsivo della concorrenza. Ciò imponeva esplicitamente allo Stato italiano di cedere quote di capitale delle imprese pubbliche».
Fu come un “liberi tutti”: si doveva vendere punto e basta, senza andare troppo per il sottile né sul come, né sul “per quanto”, né sul “a chi”. Nella celebre crociera promozionale a bordo dello yacht inglese “Britannia” il Tesoro lanciò la campagna-svendite. L’unica preoccupazione parve essere quella di aprire ponti d’oro alle finanziarie straniere, tenendo a stecchetto le banche italiane. Ne derivò una serie di clamorosi insuccessi culminati col disastro Telecom.
L’Italia ha svenduto senza riuscire a usare le privatizzazioni né per liberalizzare, né per abbattere il debito. L’Enel fu costretta a cedere ai privati i due terzi del suo capitale e la metà della sua capacità produttiva installata in Italia, ricuperandola bravamente all’estero, senza che ciò abbia calmierato le tariffe al consumatore… La liberalizzazione della telefonia fissa fu più utile, ma quella della telefonia mobile sostituì un triopolio al monopolio. La cessione delle banche pose le premesse della loro attuale fragilità, affidate come furono a proprietà inconsistenti che oggi, una a una, stanno passando o sono già passate in mani straniere, che possono già oggi – e sempre più potranno in futuro – disporre del risparmio degli italiani. Quale disastro peggiore?
Ma poiché tutto ciò non è servito alla guarigione del cancro del debito, rieccoci: c’è rimasto da privatizzare solo le Poste, e c’è chi vuole collocarne in Borsa una seconda tranche; e la Cassa depositi e prestiti. È stata solo un’indiscrezione, filtrata dal ministero dell’Economia, mai confermata. C’è chi in quegli uffici ha studiato di collocare sul mercato il 15% della Cassa per raggranellare 5 miliardi, goccia nel mare rispetto ai 2200 del debito complessivo. Anche collocando sul mercato un’altra tranche delle Poste, la raccolta salirebbe a 8 miliardi: noccioline. E comunque quel che colpisce è la mancanza di qualunque visione strategica a medio termine. Perché privatizzare un’istituzione finalizzata a esercitare attività di pubblico interesse: finanziare, cioè, gli enti locali gestendo il risparmio postale? Controllare le quote di aziende pubbliche rilevantissime e strategiche come la Snam o Terna? L’equivalente tedesco della nostra Cdp è la Kfw, tutta pubblica, come la gemella francese, la Caisse des Dépots.
Meno male che nel frattempo alla Cassa hanno messo mano alla “corporate identity”, calando la sua nuova missione, valori e identità in una nuova immagine, coerente con il suo status – fissato dalla legge di stabilità del 2016 – di “Istituto Nazionale di Promozione”. Una nota della Cassa ha chiarito che il suo compito è promuovere “il futuro dell’Italia contribuendo allo sviluppo economico e investendo per la competitività. I valori rappresentano gli elementi distintivi e caratterizzanti dell’attività delle persone che lavorano nelle società del Gruppo”, “agiamo consapevoli del nostro ruolo al servizio del Paese”, “valutiamo l’impatto economico, sociale e ambientale delle nostre azioni in un’ottica di lungo periodo”. Eccetera. Cosa c’entra, privatizzare tutto questo, con l’inequivocabile missione d’interesse pubblico? E scalare 8 miliardi dalla montagna del debito quale effetto reale potrebbe avere se non finanziare di nuovo la spesa corrente inattaccata dalle manovricchie finanziarie di impronta elettoralistica che si ripetono stancamente di anno in anno?