Non ci fosse da piangere, ci sarebbe davvero da ridere. I quattro scappati di casa denominatisi “Movimento Democratico Progressista”, dopo aver preso schiaffoni per tutto il weekend dal palco del Lingotto, hanno partorito la vendetta del secolo. Una mozione di diffida contro il ministro dello Sport, Luca Lotti, di presentare al Senato e che obblighi il governo a sospendergli le deleghe – editoria e Cipe, non la Nasa – fino a quando non sarà chiarita la posizione dell’esponente renziano. Di fatto, una farsa, la ripicca per uno scherzo mal digerito. Primo, quella mozione facilmente non vedrà mai la luce, visto che oggi sempre a palazzo Madama si discuterà la mozione di sfiducia individuale presentata sempre contro Lotti dal Movimento 5 Stelle, quindi – essendo queste decisioni sotto scacco della Capigruppo – con ogni probabilità la mozione dei bersaniani finirà nel nulla o arriverà in aula chissà quando. Secondo, gli stessi che intendono colpire Renzi attraverso il suo fedelissimo, hanno già detto che oggi non voteranno la mozione di sfiducia dei grillini per non danneggiare il governo. 



Insomma, siamo alla resa dei conti personali. Il tutto, mentre il Paese attraversa uno dei momenti di pericolo maggiori dal 2011. Lungi da me difendere Matteo Renzi, il quale in effetti si è comportato altrettanto da infante, lanciando accuse e improperi spesso irriguardosi e volgari nei confronti dei fuoriusciti, ma una cosa sia chiara: è guerra per bande, perché di Lotti interessa il profilo politico e personale, non la funzione in seno al governo, visto che il ministro dello Sport è strategico quanto un consigliere regionale della Basilicata. E che l’irresponsabilità stia tracimando, lo conferma il fatto che in perfetta contemporanea con la pantomima su Lotti (avete notato come, da quando la Procura di Roma ha tolto le indagini al Noe per fughe di notizie, Il Fatto Quotidiano sia costretto ad affrontare argomenti diversi dal caso Consip?) a detta del Comitato economico e finanziario dell’Ue – il gruppo di lavoro che riunisce governi, Commissione e Bce – c’è il rischio che salti un pezzo della flessibilità, quella per gli investimenti, concessa all’Italia nel 2016. Circostanza che farebbe traballare l’intera costruzione dei conti degli ultimi due anni e che nel peggiore degli scenari potrebbe portare alla richiesta di restituzione dei soldi, lo 0,2% del Pil, altri 3,4 miliardi, o parte di essi per non finire in procedura. 



Stando all’Ue, nel 2017 il deficit italiano salirà al 2,4% del Pil dal 2,3% registrato nel 2016, mentre il debito è proiettato verso il 133,3%. Nel 2017, notano gli sherpa, l’Italia avrebbe dovuto portare a casa una correzione strutturale pari allo 0,6% del Pil, invece ci sarà un deterioramento dello 0,4%. Per questo il Comitato afferma che Roma «rischia una deviazione significativa rispetto all’aggiustamento nel 2017 anche tenendo conto del bonus dello 0,32% del Pil, circa 5,5 miliardi, per migranti e terremoti. Dunque a prima vista c’è l’evidenza del rischio di un deficit eccessivo basato sulla regola del debito», la norma che impone di correggere il deficit strutturale per abbassare appunto il debito. 



Ma i problemi riguardano però anche i conti del 2016, che non tornano del tutto. Il Comitato scrive che «le condizioni per la flessibilità per gli investimenti – cioè che questi rimangano quanto meno allo stesso livello dell’anno precedente – attualmente non sembrano rispettate». In poche parole, il governo aveva promesso di aumentare gli investimenti ma poi non è stato di parola. Dunque, potrebbe cadere parte dei 19 miliardi di flessibilità, 3,4 miliardi, concessa nel 2016 a Renzi dal presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker. Su questo punto la palla torna proprio alla Commissione, che a maggio, una volta acquisiti i dati definitivi di Eurostat sugli investimenti, verificherà se ci sono le condizioni per concedere ex post quella flessibilità. Un quadro che ha portato gli sherpa ad affermare che al momento Roma «rischia una deviazione significativa rispetto agli impegni nel 2016 e 2017 con il pericolo che non si dimostri più capace di mantenere la dinamica del debito su un percorso sostenibile». 

Bene, questa messe di guai verrà sottoposta dai colleghi europei a Pier Carlo Padoan all’Eurogruppo del 20 marzo, lunedì prossimo per capirci. Fonti vicine al dossier rimarcano comunque che a essere decisiva resta la manovra correttiva da 3,4 miliardi per il 2017 da approvare entro aprile: se sarà completa e credibile il problema della flessibilità per gli investimenti – gli altri 3,4 miliardi che potrebbero mancare per il 2016 – sarà risolto con qualche escamotage tecnico, altrimenti le due questioni si sommeranno con il rischio concreto che l’Italia finisca in procedura d’infrazione. E ricordatevi sempre che manovra completa e credibile vuol dire aumento dell’Iva. Non a caso, ieri il Btp italiano a 10 anni è tornato a rendere il 2,4%, livello che non si toccava da due anni. 

Per carità, nulla di preoccupante o catastrofico nell’immediato, ma attenzione ai picchi che si trasformano in dinamica. Il tutto, alla luce di dati macro che non sembrano suggerire ottimismo. È infatti dell’altro giorno la conferma di una gelata sugli impianti italiani a inizio 2017: a gennaio, dicono i dati Istat corretti per gli effetti del calendario, la produzione industriale è diminuita del 2,3% rispetto a dicembre e dello 0,5% rispetto a gennaio 2016. Quello registrato dall’Istituto di statistica è il primo calo tendenziale dopo cinque aumenti consecutivi e segue il boom di dicembre, quando si era verificato un aumento del 6,8%. Tutti i comparti presentano variazioni negative, tranne l’energia che sfrutta in rimbalzo dei mercati internazionali. L’indice destagionalizzato mensile indica una crescita per l’energia del 3,1% e riduzioni per i beni strumentali (-5,3%), i beni intermedi (-3,4%) e i beni di consumo (-1,6%). Se si guarda alla variazione annua, gli indici corretti per gli effetti di calendario registrano un aumento “marcato”, sottolinea l’Istat, nel comparto dell’energia (+14,4%); segnano invece diminuzioni i beni strumentali (-6,2%) e, in misura più lieve, i beni di consumo (-1,9%) e i beni intermedi (-1,4%). 

«Dopo i dati molto positivi di dicembre, si assiste all’ennesima inversione di tendenza, che attesta come l’Italia non sia affatto uscita dal tunnel della crisi», afferma Massimiliano Dona, presidente dell’Unione Nazionale Consumatori, commentando i dati. «In particolare ci preoccupa il crollo su base annua dei beni di consumo durevoli, scesi del 5,7%. È la dimostrazione che le famiglie si possono permettere solo la spesa di tutti i giorni e sono costrette a rinviare gli acquisti dei beni più costosi». E se Confindustria parla di calo fisiologico dopo il risultato boom di dicembre, giova ricordare che l’andamento dell’intero 2016, fatto salvo il +1% di agosto, è stato piatto per l’intero anno. La ripresa, semplicemente, non c’è, alla faccia del Jobs Act. 

Proprio sicuri che abbiamo il tempo e i margini per perderci in diatribe e Vietnam parlamentari sul futuro di Luca Lotti?