Ci sarà davvero da ridere lunedì, quando Pier Carlo Padoan dovrà portare i numeri dei nostri conti pubblici in sede europea e convincere Bruxelles che gli sforzi italiani sono avviati sulla buona strada e, quindi, occorre accordarci fiducia e non riprendersi i fondi garantiti dalla flessibilità e aprire la procedura di infrazione. Sale infatti ancora il debito pubblico italiano, a seguito dell’aumento dei fondi nelle casse del Tesoro. A gennaio, dice Banca d’Italia, il debito delle Amministrazioni pubbliche è aumentato di 32,7 miliardi, a quota 2.250,4 miliardi. Spiega via Nazionale che «l’incremento è dovuto all’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (34,3 miliardi, a 77,4; 63,5 miliardi alla fine di gennaio del 2016), solo in parte compensato dall’avanzo di cassa(1,3 miliardi) e dall’effetto complessivo degli scarti e dei premi all’emissione e al rimborso, della rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione e della variazione del cambio dell’euro (0,4 miliardi)».
La fucina del debito tricolore è nelle amministrazioni centrali: ripartendo il fardello per sottosettori, Bankitalia attribuisce alla Pa centrale un aumento di 33,2 miliardi, mentre quello degli enti di previdenza è salito di 0,1 miliardiil debito delle Amministrazioni localiè invecediminuito di 0,6 miliardi. Dall’aggiornamento del bollettino Bankitalia emerge infine che le entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari in gennaio a 35,4 miliardi, in aumento del 3,3 per cento rispetto allo stesso mese del 2016; «al netto di alcune disomogeneità contabili che riguardano principalmente gli incassi dell’Iva e dell’Irpef, si può stimare che l’incremento sia stato più contenuto».
E attenzione, perché il dato più preoccupante è un altro. A dicembre è infatti sceso il controvalore del portafoglio di titoli di Stato italiani detenuti da investitori stranieri, con una detenzione al minimo da due anni. Stando ai dati contenuti nel supplemento al bollettino statistico “Finanza pubblica: fabbisogno e debito di Banca d’Italia”, a dicembre il controvalore dei governativi italiani detenuti da investitori non residenti risultava pari a 677,434 miliardi di euro dai 700,998 miliardi di novembre. Per trovare un importo più basso bisogna risalire nella serie sino a dicembre 2014, quando l’importo si attestava a 672,916 miliardi.
In base a calcoli Reuters sui dati di Bankitalia, la quota in mano a investitori esteri a dicembre 2016 è scesa al 36,2% del totale dei titoli di Stato in essere dal 37,1% di novembre. Il portafoglio esteri include anche i titoli di Stato detenuti da investitori domestici attraverso soggetti non residenti e quelli detenuti dalla Bce e dalle Banche centrali di altri Paesi. E visto che l’Eurotower non scarica, chi ha venduto? Esattamente i soggetti da cui vi dicevo di stare in guardia un mesetto fa, quegli hedge fund che oggi ci sono e domani chissà: è bastato vedere all’orizzonte il nuvolone minaccioso delle elezioni in Olanda, Francia e Germania ed ecco che la nostra carta ha smesso di essere appetibile, al netto delle aste piene e della bid-to-cover da applausi. Il mercato primario è una cosa, soprattutto con la Bce operativa full frontal, il secondario un’altra.
E a complicare il quadro macro ci ha pensato l’Istat, la quale sempre ieri ha rivisto al rialzo le stime preliminari sull’inflazione di febbraio. L’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (Nic), al lordo dei tabacchi, il mese scorso ha registrato un aumento dello 0,4% su base mensile e dell’1,6% nei confronti di febbraio 2016 (la stima preliminare era +1,5%), da +1,0% di gennaio. Il dato è stato leggermente rivisto rispetto a quello preliminare diffuso tre settimane fa, che indicava un incremento congiunturale dello 0,3% e dell’1,5% su base annua. L’accelerazione – rileva l’Istat – è legata principalmente all’accelerazione della crescita dei prezzi delle componenti maggiormente volatili, ossia gli alimentari non lavorati (+8,8%, era +5,3% a gennaio) e i beni energetici non regolamentati (+12,1%, da +9,0% del mese precedente), alla quale si sommano la dinamica dei prezzi dei servizi relativi ai trasporti (+2,4%, in accelerazione dal +1,0% di gennaio) e l’attenuazione della flessione di quelli dei beni energetici regolamentati (-1,6%, dal -2,8% del mese precedente). Di conseguenza, l’inflazione di fondo, al netto degli energetici e degli alimentari freschi, sale di appena un decimo di punto (+0,6%, da +0,5% del mese precedente), mentre quella al netto dei soli beni energetici si porta a +1,3%, da +0,8% di gennaio.
L’aumento congiunturale dell’indice generale dei prezzi al consumo è principalmente dovuto ai rialzi dei prezzi degli alimentari non lavorati (+3,0%), dei beni energetici regolamentati e non (rispettivamente +1,1% e +0,5%) e dei servizi relativi ai trasporti (+1,0%). Su base annua la crescita dei prezzi dei beni (+2,0%, da +1,2% di gennaio) segna un’accelerazione più marcata rispetto a quella dei servizi (+0,9%, da +0,7% del mese precedente). Di conseguenza, rispetto a gennaio, il differenziale inflazionistico negativo tra servizi e beni si amplia, portandosi a meno 1,1 punti percentuali (da meno 0,5 di gennaio). L’inflazione acquisita per il 2017 è pari a +1,1% per l’indice generale e +0,1% per la componente di fondo. I prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona aumentano dell’1,1% su base mensile e del 3,1% su base annua (era +1,9% a gennaio): i prezzi dei prodotti ad alta frequenza di acquisto aumentano dello 0,7% in termini congiunturali e del 3,2% su base annua, da +2,2% del mese precedente. L’indice armonizzato dei prezzi al consumo (Ipca) aumenta dello 0,2% su base congiunturale e dell’1,6% su base annua (da +1,0% di gennaio), confermando la stima preliminare. L’indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (Foi), al netto dei tabacchi, registra un aumento dello 0,4% su base mensile e dell’1,5% nei confronti di febbraio.
Insomma, è il carrello della spesa a vedere continui aumenti, questo al netto di dinamiche salariali piantate al chiodo, disoccupazione sempre ai massimi e a consumi che non potranno che contrarsi, se la dinamica non calerà, magari con un rientro nei margini naturali dei costi di frutta e verdura dopo il gelo invernale e con un appiattimento delle voci legate all’energia, stante anche il petrolio sceso nuovamente sotto quota 50 dollari al barile dopo le previsioni boom dello shale oil statunitense per l’anno in corso (cosa vi avevo detto che l’accordo Opec per un congelamento della produzione era una pantomima?).
Ma attenzione, perché mentre il mondo si attende un rialzo dei tassi da parte della Fed, proprio il laboratorio Usa sembra volerci spaventare alla luce delle dinamiche italiane: dopo la scorpacciata di debito del 2016, infatti gli Stati Uniti stanno sperimentando un tasso di inflazione decisamente fuori target (al rialzo), un qualcosa che già oggi sta mostrando i profili della stagflazione, al netto del Pil decisamente deludente, come ci mostra il grafico. A vostro modo di vedere, se non si interverrà per bloccare questa dinamica, quale sarà lo sviluppo macro che attenderà gli Usa, formalmente oltretutto impegnati in una politica di stabilizzazione al rialzo del costo del denaro – e, con 6,9 mesi di ritardo, l’Europa senza più Qe a copertura – nel 2018?
Lungi da me trasformarmi in tedesco e gridare al fantasma di Weimar, ma attenzione a queste fiammate inflazionistiche non rette da strutture macro e monetarie sostenibili: i prezzi aumentano non perché circola più moneta e aumentano stipendi e possibilità di spesa, ma unicamente per fattori anti-ciclici, il freddo che colpisce gli alimentari non lavorati e la bolletta energetica. Attenzione, perché la deflazione è una brutta bestia e ci abbiamo messo molto a sconfiggerla, ma l’inflazione è molto, molto peggio, al netto dell’abbassamento dei costi di servizio di un debito, il nostro, che è in continuo e costante aumento.