Una specie di stillicidio, di tagli sempre parziali e sempre scollegati dal rilancio commerciale che si attende da anni: è la storia della “nuova” Alitalia, quella che da ieri si è liberata di una presidenza fallimentare, quella di Luca Cordero di Montezemolo, ma non potrà (solo) per questo riprendere a volare alto. Il nuovo – ulteriore – piano di rilancio si fonda sulla presa d’atto di altri duemila esuberi, di tagli del 30% allo stipendio dei piloti e di un nuovo presidente con deleghe operative, Luigi Gubitosi – un manager di estrazione finanziaria evolutosi però attraverso le esperienze di capo-azienda in Wind e poi in Rai -, il quale entra però in azienda sotto il cattivo auspicio di dover dividere le deleghe con l’amministratore delegato “industriale” Cramer Ball, fino a ieri in “odore” di estromissione e invece riconfermato dal diktat del socio arabo Etihad.



Che poi, sia chiaro: poveri arabi, si sono fidati di Montezemolo, come pure i loro vicini di casa che hanno investito in Unicredit, e ci hanno rimesso soldi a palate, è anche comprensibile che non si fidino più al 100% degli italiani. Ma anche loro, anime belle, non hanno mica conferito ad Alitalia quella spinta commerciale, quei nuovi mercati soprattutto asiatici che promettevano di aprirle. E dunque la via crucis dell’ex compagnia di bandiera, “salvata” dal fallimento vero e proprio grazie a oltre 4 miliardi di costi finiti a vario titolo nei conti dell’erario pubblico, non si può dire ancora cessata. Nel nuovo piano industriale si parla di utile di bilancio dal 2019: due anni, in questo settore, sono tanti, tutto potrà ancora cambiare.



Spiace dirlo, perché sembra – facendolo – di voler gettare la croce addosso ai dipendenti, ai sindacati, e non sarebbe giusto. Ma resta il fatto che il rapporto tra l’organico e la flotta, in Alitalia, è ancora sbilanciato quasi del doppio rispetto alle compagnie che guadagnano. E questi nuovi tagli annunciati riducono la sproporzione, ma non la cancellano. Il settore dell’aerotrasporto nel 2016 ha fatto faville, i dati aggregati (come se tutte le compagnie del mondo facessero un unico bilancio) sono in utile stratosferico, 35,6 miliardi di dollari, ma Alitalia ha continuato a perdere! La verità è che il trattamento clamorosamente asimmetrico che l’azionariato subentrato ai “patrioti” – per modo di dire – che nel 2007 intervennero a rilevare la “good company” dalla vecchia Alitalia ha assicurato alla compagnia è stato come un “metadone” che non è riuscito a disintossicare il drogato.



Era chiaro a tutti gli addetti ai lavori che il primo piano era insufficiente e dopo pochi mesi fu reso evidente dai numeri. Ma la china che condusse di lì a qualche anno all’avvento di Etihad lasciò nuove ferite nel corpo industriale e certo anche professionale della compagnia. Quando intervennero gli arabi tutti respirarono, ritenendo – ma oggi si deve dire: erroneamente – che con i petrodollari degli emiratini le peripezie della compagnia di bandiera fossero terminate. Tutt’altro. Neanche ai pur ricchi arabi piace perdere quattrini a bocca di barile.

E dunque? Dunque i nuovi tagli aiuteranno, ma non risolveranno, e la diarchia insediata al vertice – che riflette la diarchia proprietaria tra Intesa e Unicredit da un lato ed Etihad dall’altra – è il peggiore auspicio rispetto alla fattibilità di una vera svolta gestionale.