La grande paura è passata, il fantasma estremista non ha conquistato l’Olanda. Ma, detto tra noi, qualcuno davvero pensava che avrebbe potuto farlo? Con un sistema proporzionale puro? Geert Wilders e il suo partito non hanno sfondato, hanno guadagnato 4 seggi, ma il primo posto è rimasto saldamente in mano al premier uscente di centrodestra, Mark Rutte, casualmente beneficiario negli ultimi giorni di una querelle con la Turchia che gli ha garantito toni tutt’altro che moderati nei dibattiti finali: detto fatto, quello che nelle previsioni doveva essere un bagno di sangue elettorale, si è sostanziato in una perdita di una decina di seggi e niente più. 



Se esiste una vittima del voto olandese sono i laburisti, crollati letteralmente dal 34% al 5%, di fatto scomparsi: e parliamo dell’Olanda, uno dei Paesi del Nord che hanno fatto del welfare socialdemocratico uno dei suoi tratti distintivi. Spariti. Ma non è Wilders ad aver fatto il pieno, anzi: se esiste un partito che ha dato vita a un exploit questi sono i Verdi, sicuramente non tacciabili di xenofobia o propaganda anti-islamica. E che Wilders abbia fallito, lo dicono un paio di dati: primo, voci non smentite hanno parlato di un sostegno – anche economico – alla campagna di Wilders da parte dell’entourage di Stephen Bannon, il consigliere numero uno di Donald Trump. Secondo, il partito anti-immigrati gode delle simpatie non solo della comunità ebraica, ma dello stesso Israele. Insomma, volendo Wilders avrebbe potuto giocare meglio le sue carte, ma l’uomo è ciò che è: e per quanto un olandese possa essere disilluso rispetto al modello di società in cui si è tramutata quella dell’inclusione e dell’accoglienza nord-europea alla luce dei flussi recenti, difficilmente vota per eleggere capo del governo uno che utilizza come principale argomento politico il fatto che Maometto sia un signore della guerra e un pedofilo. 



Wilders, di fatto, era un bluff, era niente più che un hooligans fatto sedere in un settore di tifosi moderati, tanto per vedere l’effetto che fa. Si voleva valutare l’effetto contagio, nulla più. Eppure, i mercati qualcosa ci hanno detto, ieri. Si è infatti registrato un effetto immediato (ma forse di breve respiro) dei risultati delle elezioni in Olanda anche sugli spread: quello tra i decennali francesi e tedeschi, un indicatore importante del rischio politico in questi ultimi mesi, si è contratto in modo significativo dopo che il partito populista di Geert Wilders non ha ottenuto, nelle elezioni olandesi, il consenso previsto. In mattinata, il differenziale si stava riducendo di circa 4 punti base a 59 punti base, scendendo al di sotto della soglia psicologica dei 60 punti per la prima volta dalla fine di gennaio. «I mercati ora probabilmente stanno traendo una conclusione dei risultati olandesi in vista delle prossime elezioni in Francia», stando agli analisti di Barclays. Invece, lo spread tra Dsl (il decennale olandese) e il Bund si attestava a metà mattina a 8 punti base, in calo di un punto base rispetto a mercoledì. 



Commerzbank, tuttavia, gettava acqua sul fuoco, sostenendo che il sollievo dovrebbe essere di breve durata. Il flusso di notizie dalla Francia è ancora intenso e confuso e l’incertezza derivante dalla possibilità di vittoria di Marine Le Pen alle elezioni presidenziali è tuttora elevata. Pertanto, gli analisti della banca tedesca consigliano di utilizzare l’ulteriore contrazione nello spread Oat/Bund per aprire posizioni corte sull’obbligazionario francese. Insomma, conta solo il voto francese: perché quello davvero rappresenterà la cartina di tornasole. E, soprattutto, perché al netto dei sondaggi che già incoronano Macron, la realtà è che nessuno – in coscienza – si sente di escludere sorprese. Non tanto per la venuta meno dello spirito repubblicano, quello che al ballottaggio vede sempre il partito escluso votare contro il candidato del Front National in nome dei valori della Republique ma perché la Francia rappresenta un’Olanda al cubo: a L’Aja sono i laburisti a essere spariti, mentre a Parigi sia i gaullisti che i socialisti sono letteralmente ai minimi termini. Quindi, difficilmente tracciabili nelle loro scelte, essendo in atto una sorta di guerra tra bande, almeno tra i Repubblicani. 

Francois Fillon, nonostante l’avviso di garanzia, non intende ritirarsi e nessuno può forzare troppo la mano, visto che i suoi due potenziali antagonisti- Alain Juppè e Nicolas Sarkozy, sono fuori gioco. Con il voto del primo turno fissato al 23 aprile, è un po’ tardi per cercare un outsider. Stessa faccenda in casa socialista, dove addirittura la scorsa settimana aveva fatto capolino l’ipotesi di un ritorno in campo di Francois Hollande: di fatto, sarà il candidato indipendente liberale Emmanuel Macron a fungere da candidato di riferimento, quantomeno al ballottaggio. In un contesto simile, se Marine Le Pen dovesse ottenere un buon risultato al primo, chi potrebbe mettere la mano sul fuoco per uno sviluppo lineare? 

Cosa può dirci davvero, quindi, la vittoria fragile conseguita dall’Europa -intesa come Unione – in Olanda? Per scoprirlo, tocca ignorare i dati elettorali e guardare oltre. Per l’esattezza, nelle pieghe dell’affaire turco scatenatosi negli ultimi quattro giorni. Ieri, commentando i risultati elettorali, il ministro degli Esteri di Ankara, Mevlut Cavusoglu, ha evocato qualcosa di decisamente sinistro: «Quando si guarda ai partiti (olandesi, ndr) si vede che non c’è differenza tra i socialdemocratici e il fascista Wilders. Hanno tutti la stessa mentalità fascista – ha spiegato il ministro parlando nella provincia di Antalya – Dove andrete? Avete dato inizio al collasso dell’Europa. State trascinando l’Europa nel baratro. Presto inizieranno guerre di religione in Europa». Di più, l’altro giorno un giornale turco ha persino scritto: «Sapete quanti uomini conta l’esercito dei Paesi Bassi? Solo 48mila uomini. E quanti immigrati turchi ha l’Olanda? Ben 400mila». Inquietante. 

Ma c’è dell’altro, che i tg e i giornali non vi diranno. La stampa tedesca, infatti, in queste ore sta rilanciando con molta enfasi i contenuti del libro “Guidata dagli eventi: la politica sui rifugiati della Merkel” pubblicato dal giornalista di Die Welt, Robin Alexander. E cosa ci dice? Che il premier ungherese, Viktor Orban, quando denunciò che la Merkel stava dando vita a un accordo segreto con Ankara per accogliere migliaia di migranti all’anno provenienti dalla Turchia, aveva ragione. Stando alla ricostruzione, il 6 marzo 2016, la Merkel aveva concordato con Erdogan di prendere ogni anno 150-250 mila rifugiati dalla Turchia e lo aveva fatto senza la minima consultazione degli altri Stati europei. Guarda caso, il solo al corrente dell’accordo era proprio il premier olandese Mark Rutte, presente ai colloqui perché presidente di turno dell’Ue. L’accordo fu poi approvato nel panico dai 28 partner, perché fu presentato come l’unico modo di arrestare il flusso che avrebbe fatto esplodere la rotta balcanica: insomma, pagare in fretta i 3 miliardi annui richiesti da Erdogan, altrimenti ci avrebbe inondato di profughi. 

E proprio Die Welt ci racconta che fu tutto un trucco. In calce all’accordo, c’era infatti la clausola segreta denunciata da Orban: «Accogliere volontariamente un certo numero di profughi, per ragioni umanitarie». Merkel e Rutte la presentarono agli europei nel Consiglio Ue come una «proposta a sorpresa» avanzata dal ministro degli Esteri turco, lo stesso Davutoglu cui è stato negato il permesso di tenere un comizio in Olanda e che ieri ha evocato le guerre di religione in Europa. E come mai accadde? Perché la Merkel disse sì? Davvero alla radice di tutto ci fu l’emozione per il ritrovamento su una spiaggia del cadavere del piccolo Aylan, annegato mentre cercava la via dell’Europa con la sua famiglia? No e ce lo conferma il Rheinische Post: in realtà, la Merkel aveva in mano un rapporto degli esperti demografi tedeschi che le consigliavano di accogliere 300mila immigrati l’anno per 40 anni, per compensare il calo della natalità tedesco e mantenere l’egemonia economica della Germania. Così, semplicemente, un progetto di ingegneria sociale elaborato a tavolino, quasi un’eugenetica della produttività. 

Guarda caso, in questi giorni di tensione per il pericolo Wilders, tornano alla ribalta gli stessi tre protagonisti di quel patto. E, guarda caso, in Francia sale la tensione, con un pacco bomba alla sede del Fmi a Parigi e una sparatoria stile statunitense in un liceo di Grasse, dove uno studente avrebbe aperto il fuoco contro i compagni, ferendone quattro. Il governo Hollande, dal canto suo, aveva subito lanciato l’allerta terrorismo: il tutto, a 24 ore dalla voce che avrebbe visto l’esecutivo transalpino pronto a sospendere lo stato di emergenza in vigore dalle stragi di Parigi. Forse, a qualcuno quella decisione non andava bene. Conta solo il voto francese, l’Olanda è stata semplicemente un camera di compensazione.