Che vittoria. Susanna Camusso, finalmente, può esultare: l’odiato voucher è stato cancellato. Ma tira un sospiro di sollievo anche il governo, convinto, non a torto, che con l’aria che tira qualsiasi chiamata alle urne sia considerata dagli elettori come un’occasione di protesta, senza nemmeno entrare nel merito. “L’Italia non aveva certo bisogno nei prossimi mesi di una campagna elettorale su temi come questi”, ha sottolineato infatti il premier Paolo Gentiloni. Ora, ha aggiunto, si apre una nuova stagione, con l’impegno di trovare un nuovo strumento per regolare “in maniera seria” il lavoro saltuario e occasionale.



Chissà. Forse, ma davvero forse, almeno lui ci crede. Forse, come ha detto il ministro Giuliano Poletti, cresce il rischio “di avere un po’ di nero in più”. Ma poco importa. Quel che contava per davvero non era il voucher, strumento senz’altro opinabile e perfettibile, nato per far emergere una punticina dell’immenso iceberg dell’economia sommersa, bensì cogliere, a poco prezzo, una “vittoria politica”: la Cgil incassa un successo, il governo dà una prova di “ragionevolezza” dopo le sconfitte subite all’insegna del decisionismo renziano. E adesso? Di sicuro, si profila una pletora di commissioni di studio per esaminare quello che avviene nel resto d’Europa. Salvo poi fare l’esatto opposto. E così tra qualche mese si potranno organizzare dibattiti sul “che fare” per contrastare il ritrovato “dilagare di nero e precarietà”. Ma l’esigenza concreta emersa dall’uso dei voucher resterà insoddisfatta. Ancora una volta, insomma, una lettura ideologica e “politica” ha stravolto il merito della questione.



Per carità, come ha sostenuto Pietro Ichino, “è certo che qualche abuso nell’utilizzo si sia verificato; ed è pure plausibile che in qualche caso l’ingaggio con i voucher abbia sostituito lavoro regolare; ma è altrettanto ragionevole pensare che nella parte di gran lunga maggiore dei casi questa forma di ingaggio abbia consentito, invece, di svolgere in modo trasparente, e con copertura contributiva, del lavoro che altrimenti sarebbe stato inghiottito dall’economia sommersa o non avrebbe potuto neppure svolgersi”. Insomma, il voucher meritava di essere corretto, prima che rottamato. Soprattutto se non si disponeva (e non si dispone) di soluzioni realistiche migliori. Il fenomeno andava studiato, le storture corrette, secondo la logica del “fine tuning” che deve guidare l’azione di governo Purtroppo non è stato possibile: per la Cgil lo strumento dei buoni-lavoro va considerato cattivo in sé, indipendentemente dal fatto che consenta l’emersione di lavoro nero.



Non è un dramma, perché in cifre i 134 milioni di buoni-lavoro venduti nel 2016 vanno messi a confronto con i 43 miliardi di ore di lavoro complessivamente svolte l’anno scorso: il lavoro retribuito con i voucher è stato anche nell’ultimo anno, quello del “boom” secondo i critici, una frazione minuscola, al massimo lo 0,3% del totale. “Nessuno – commenta Ichino – può sostenere ragionevolmente che questo ‘zerovirgola’ di lavoro accessorio costituisca l’evidenza di una sua diffusione abnorme, cioè del fatto che abbia sostituito una quantità rilevante di lavoro che altrimenti si sarebbe svolto nella forma ordinaria”.

Ma, al di là della (mancata) guerra sui voucher resta l’amara realtà di un Paese che non riesce ad affrontare in maniera razionale e organica, nei tempi giusti senza fregole impulsive, uno dei suoi problemi più gravi: un costo del lavoro troppo alto rispetto alla produttività del sistema. Sul sistema nel suo complesso grava una contribuzione insostenibile che favorisce il dilagare del nero. In questa cornice la questione dei voucher è un effetto collaterale di relativa importanza.

Non è necessario essere specialisti per comprendere che il ricorso al voucher è stata la classica risposta adattiva del sistema a condizioni di elevata onerosità del ricorso al lavoro regolare aggravata dall’impotenza degli organi pubblici a tener conto della flessibilità necessaria per certi impieghi temporanei. Eliminata la risposta, il problema resta. Abbiamo evitato un referendum, non posto le premesse per impieghi temporanei più equi.