Ieri il fronte economico aveva in agenda due appuntamenti formalmente importanti: l’apertura del G-20 a Baden Baden e la visita di Angela Merkel negli Stati Uniti per un primo incontro con Donald Trump. Non fatevi ingannare: nessuno di quei due appuntamenti conta qualcosa. Zero. Nella rinomata località termale tedesca è andata in scena una pantomima rispetto all’agenda globale prossima ventura, ovvero una diatriba tra il patetico e il falso accademico riguardo al destino della globalizzazione: abbandonarla, riformarla o perseguirla? Detta così sembra una di quelle discussioni epocali, ma, come sempre accade, quando si mette al fuoco troppa carne e troppo in linea teorica, si rischia di perdere il focus sui reali interessi in gioco. E sulle dinamiche sottotraccia. 



Primo, Angela Merkel è andata a Washington per tutelare l’economia tedesca, non chissà per quale esercizio di equilibrismo globale. Lo conferma il fatto che, alla vigilia della partenza della Cancelliera, il ministro dell’Economia tedesco, Brigitte Zypries, abbia dichiarato che «la Germania può fare causa agli Stati Uniti presso la World Trade Organization contro la tassa doganale sulle auto tedesche proposta dal presidente, Donald Trump». Della serie, vengo a trattare, ma con la pistola carica. L’inquilino della Casa Bianca, infatti, ha minacciato di imporre dazi del 35% sulle case automobilistiche tedesche che producono in Messico le auto per il mercato statunitense. Per Brigitte Zypries, «sono previste delle procedure perché l’accordo prevede espressamente che nessuno sia autorizzato a chiedere un’imposta superiore al 2,5% sull’importazione di veicoli». Inoltre, Trump ha criticato Berlino perché non spende abbastanza per la difesa (solo l’1,2%, contro l’obiettivo del 2% per ogni membro della Nato), per il suo surplus commerciale con Washington di 50 miliardi di dollari e per i suoi presunti vantaggi grazie all’euro debole. Ma si sa, spesso si abbaia proprio per non dover mordere. 



La Merkel, di fatto, ha una missione: convincere Trump che un’Unione europea forte sia nell’interesse economico e strategico degli Stati Uniti. Non a caso, ha portato con sé a Washington una delegazione di uomini d’affari che comprende i manager di Bmw e Siemens, due aziende che, insieme, danno lavoro a 120mila persone negli Stati Uniti: per la Merkel, «gli scambi commerciali tra Stati Uniti ed Europa sono vantaggiosi per entrambe le parti». Di più, prima di partire, ha concordato con il presidente cinese Xi Jinping la necessità di “promuovere il libero scambio”, proposito in cui si legge un chiaro messaggio all’inquilino della Casa Bianca. Insomma, riuscirà la Cancelliera ad ammorbidire i propositi protezionistici del presidente Usa? Proprio sicuri che da guardare ieri ci fossero queste dinamiche? Che gli occhi e le orecchie dovessero essere puntati su Washington e Baden Baden? 



Con la Fed che pare decisa a proseguire senza troppi ripensamenti la sua politica di aumento dei tassi, al netto anche delle prospettive inflazionistiche quasi deflattive, forse sono altri i soggetti che potrebbero rivelarsi dei game changers, almeno per noi europei. Attorno all’ora di pranzo, infatti, si è registrato un tonfo dell’euro/dollaro, qualcosa che si voleva legato proprio alla missione statunitense della Merkel e che invece aveva tutt’altra ragione. Il movimento del cross era infatti dovuto alla pubblicazione dell’ultimo sondaggio di OpinionWay sulle presidenziali francesi del prossimo 23 aprile: risultato? Marine Le Pen tornava prima con il 28%, guadagnando un punto percentuale, mentre Emmanuel Macron restava fisso al 25%. Insomma, niente di drammatico, ma era un altro dato a fare sensazione, almeno in vista del secondo turno: nonostante l’avviso di garanzia e i continui scandali, l’ultimo legato a costosi capi d’abbigliamento avuto in regalo, il giubilato candidato della destra, Francois Fillon, guadagnava un punto e saliva al 20%. Tanto è bastato per muovere e non poco il cambio della divisa comune europea. 

Secondo, nel silenzio generale il banchiere centrale austriaco, Ewald Nowotny, membro del Consiglio direttivo della Bce, ha messo sul tavolo la possibilità di un rialzo dei tassi prima della fine del Quantitative easing. In un’intervista al quotidiano tedesco Handelsblatt, Nowotny ha detto che la decisione se procedere a una stretta prima o dopo il termine del programma di acquisto asset sarà presa più avanti e ha ipotizzato un ritocco verso l’alto prima del tasso dei depositi, attualmente a -0,40% e, solo in un secondo momento, il rifinanziamento principale, ora a zero. «Ovviamente le parole del banchiere pongono un serio problema di comunicazione per la Banca centrale europea perché vanno a contraddire l’atteggiamento ufficiale della Bce sulla sequenza di uscita dall’accomodamento monetario», hanno sottolineato gli strategist di Unicredit.

Ma se ieri l’euro/dollaro ha reagito al ribasso alle parole di Nowotny, giovedì si era mosso esattamente al contrario, quando sempre il banchiere centrale austriaco aveva detto chiaro e tondo che a sostituire Draghi nel 2019 potrebbe essere il numero uno della Bundesbank, Jens Weidmann. Insomma, un superfalco all’Eurotower val bene una moneta in rafforzamento, vista l’agenda anti-Weimar che applicherebbe: addio stimolo, solo rigore. Nowotny, pur ammettendo che una decisione simile ricade «nelle sfere politiche e non dipende dal controllo dei banchieri centrali», ha sottolineato come il processo di selezione si restringerà ovviamente al novero delle personalità più qualificate. E quali sono a suo modo di vedere? Il banchiere centrale tedesco e il suo collega francese, François Villeroy de Galhau, «i quali fanno parte senza alcuna ombra di dubbio di questo novero ristretto di candidati». Per Nowotny, infine, «Jens Weidmann è un collega altamente stimato da tutti». 

Cosa vi avevo detto, in tempi non sospetti? La Germania, la quale non a caso ha rimpatriato con grande anticipo la quasi totalità del suo oro fisico stoccato all’estero, sente puzza di disfacimento dell’eurozona e, onde evitare brutte sorprese, punta a controllare la cassaforte dell’Unione: al centro delle preoccupazioni, ovviamente, il sistema di pagamento dell’eurozona, quel Target2 che vede la continua crescita degli sbilanciamenti fra dare e avere tra Bundesbank e Banche centrali del Sud Europa, in particolare Italia e Spagna. Davvero dobbiamo ritenere importante la visita della Merkel a Washington, alla luce di tutto questo? Tanto più che, budget alla mano, si è già capito quale sarà la ricetta economica di Trump nel medio termine, il vecchio caro warfare come moltiplicatore del Pil: 52 miliardi di stanziamento al Pentagono, a fronte di tagli per assistenza e sanità, parlano chiaro, così come l’avvertimento lanciato ieri da Seul dal segretario di Stato, Rex Tillerson, nei confronti della Corea del Nord: «La pazienza degli Usa sta finendo, ogni opzione è sul tavolo». E con Israele che bombarda posizioni Hezbollah in territorio siriano, una chiara provocazione proxy verso l’altro potenziale bersaglio delle attenzioni belliche Usa, ovvero l’Iran, direi che il quadro è completo: a Baden Baden, come sempre, si è fatta accademia e la Merkel a Washington è andata a salvare il salvabile per Berlino, altro che futuro del libero scambio e dell’Europa. 

Sotto traccia si stanno disvelando le vere trame in atto, con politica e mercato che paiono andare di pari passo. Non vorrei che ci rendessimo conto di quanto sta accadendo troppo tardi, ovvero quando sarà già realtà e non fantapolitica, come la bolla qualcuno in questi giorni di confusione globale.