L’Istat ha confermato le previsioni sulla crescita del Pil, che nel 2016 è stata pari allo 0,9%. In termini di volume, il Prodotto interno lordo è risalito al di sopra del livello registrato nel 2000. Ha registrato una crescita il contributo della domanda interna (1,4 punti percentuali), è aumentato l’avanzo primario (1,5%), mentre c’è stato un calo dell’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche (-2,4%) e della pressione fiscale (42,9%). Per Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, «abbiamo una debole crescita che, per quanto anemica, in mancanza di niente certamente va bene e va guardata positivamente. Per fare una valutazione sul fatto che questa possa essere una svolta direi che occorre avere qualche informazione in più». 



In che senso professore?

I numeri sono certamente positivi. Però bisogna capire quali sono gli elementi di traino della domanda. Facciamo un esempio: il rinnovo del parco auto ha sicuramente dato un contribuito alla crescita del Pil. Ma perché gli italiani hanno cambiato l’auto? C’è da capire se si tratta di un primo timido passo verso la ri-normalizzazione dell’economia oppure se siamo in una situazione in cui alcuni acquisti o alcune decisioni di spesa sono state portate in là finché non sono state più rinviabili.



E come lo si può capire?

Guardando come si è mosso il tasso di risparmio. Ultimamente continua a essere sotto il 10%. Credo e mi auguro che non risalirà sopra questa soglia, perché altrimenti significherebbe che ci sono forti timori per il futuro. Però mi preoccuperebbe una sua discesa, perché se per tenere stabili i consumi si attinge ai risparmi, prima o poi questi finiscono. 

Posto che questo dato sui risparmi ancora non lo abbiamo, lei che situazione vede a livello economico?

Abbiamo una crescita in una situazione di sostanziale congelamento dei redditi da lavoro. Questo non è positivo, tanto più in questo periodo in cui si scopre che l’inflazione sta aumentando. Andrebbe bene se crescessero almeno nella stessa misura anche i redditi, ma non è così ormai da tanti anni. Dunque i dati disegnano un quadro che consente di cominciare ad alzare la testa, ma non possiamo dimenticare che ci sono alcuni elementi, non marginali, che rimangono aperti. Il primo dei quali è il potere d’acquisto delle famiglie.



Dopo i timori della deflazione, il ritorno dell’inflazione non dovrebbe essere un dato positivo?

L’aumento dell’inflazione si tradurrà in una lieve ma significativa diminuzione del potere d’acquisto. Sarebbe un elemento positivo se si accompagnasse a una rimessa in moto dell’economia, che comportasse un miglioramento, seppur lieve del tenore di vita. Se chiedessimo a un italiano se il suo tenore di vita è migliorato rispetto a un anno fa non so cosa risponderebbe. In sintesi: l’aumento del tasso d’inflazione è una buona notizia per il rapporto debito/Pil, ma per chi ha un reddito fisso non lo è.

Dunque è importante guadare anche ai redditi, oltre che al risparmio.

Le due cose sono collegate. Più si ha reddito, maggiore è la potenziale capacità di risparmio. Se i redditi continuano a rimanere congelati, soprattutto nel cosiddetto ceto medio, la situazione diventa complicata, perché non si è più in grado di fare un risparmio regolare, cioè corrispondente a una data percentuale del reddito. Se il potere d’acquisto in termini reali continua a diminuire non si può più risparmiare.

 

E come diceva prima il tasso di risparmio può fornirci un elemento in più per valutare lo stato di salute dell’economia…

Nei momenti di crisi il risparmio aumenta, perché aumenta il grado di incertezza delle famiglie sul futuro. Se il tasso di risparmio diminuisce può essere un brutto segnale: potrebbe voler dire che si sta avendo difficoltà a far fronte all’aumento dei prezzi. Il punto è che un aumento dei prezzi del 2% di per sé non è una tragedia, ma se va ad aggiungersi a un quasi decennio di crisi economica, attenuata da un qualcosa di non desiderabile come la deflazione, i bilanci delle famiglie ne risentono subito.

 

(Lorenzo Torrisi)