Il ritorno all’utile di RcsMediagroup è una notizia in sé, significativa non solo per l’editoriale oggi guidata da Urbano Cairo. Lo è anche per il settore, uno dei più in difficoltà di un’Azienda-Italia complessivamente ancora parecchio in rosso. Lo è non tanto per l’entità quasi simbolica del profitto dichiarato a fine 2017 (3,5 milioni), ma soprattutto per la velocità con la quale il nuovo “padrone” del Corriere della Sera ha scosso un gruppo che negli ultimi anni ha cumulato 1,3 miliardi di perdite (175 milioni nel 2015). Un gruppo che, appena quattro anni fa, si vedeva costretto a varare una ricapitalizzazione obbligatoria per legge al fine di sfuggire al tribunale fallimentare. Il caso merita qualche considerazione di riepilogo fuori dai cliché delle guerre interne all’acciaccato capitalismo finanziario nazionale, spesso combattute attorno ai giornali e al Corriere in modo speciale.



Una prima riflessione – più rilevante ex post – riguarda la governance di una grande azienda quotata in Italia all’inizio del ventunesimo secolo. Cairo si affaccia nel 2013 nel salotto azionario di Via Solferino (rigorosamente privo di competenze editoriali) e viene considerato a lungo un intruso, un outsider molesto, un sospetto figlio-clone di un’altra success-story della media industry nazionale, quella firmata da Silvio Berlusconi. Eppure ha già alle spalle un curriculum completo di imprenditore-manager nel settore: raccolta pubblicitaria (Cairo Communication, anche per Rcs), tv (La7), libri (Giorgio Mondadori), sport-business (Torino calcio).



Recentemente un’intercettazione telefonica fra un presidente della Repubblica e un importante banchiere ha confermato contro quali diffidenze e resistenze abbia dovuto misurarsi l’editore professionale Cairo per potersi mettersi alla prova nel salvataggio del Corriere: un bene mediatico che – dal Quirinale fino all’aristocrazia bancaria e industriale – è sempre considerato “patrimonio nazionale”, ma nei fatti è finito ripetutamente sull’orlo del crack (quante analogie fra il tormentato passaggio fra la storica proprietà Crespi e la Rizzoli, conclusosi nel gorgo Ambrosiano-P2) e il crepuscolo del successivo “salotto buono” di industriali e banchieri (alla fine troncato dall’Opa Cairo). Nel ventunesimo secolo non c’è più spazio per gestioni non imprenditoriali di aziende editoriali: per testate da mandare in edicola o in rete “a prescindere” dai risultati economici. Tanto meno per vecchie ammiraglie che possono aver ancora molti ammiratori quando sono in porto, ma si dimostrano incapaci di affrontare concorrenti o avversari in mare aperto.



Non sorprende comunque che Cairo abbia dovuto tagliare con l’accetta i cavi che tenevano ormeggiata Rcs nel suo porto paludoso. Lo ha fatto con un’operazione non concordata sul mercato: per paradosso con l’appoggio di una banca (Intesa Sanpaolo) che era stata protagonista anche nella passata gestione, ma che non poteva più permettersi di essere azionista-creditrice di un Corriere da far sopravvivere ogni anno a-pié-di-lista, come la Rai o un vecchio organo di partito. Ha sorpreso semmai che Cairo ce l’abbia fatta contro Mediobanca e a conti fatti non sembrano così importanti i sospetti di favore da parte dell’allora premier Matteo Renzi. Nè è scontato nella prassi italiana che l’investitore (in proprio, anche se appoggiato da investitori finanziari) abbia assunto le cariche di presidente e amministratore delegato: cioè l’intera responsabilità della gestione aziendale e dei rapporti con il mercato finanziario. Sarà una carta in più quando Rcs – non diversamente da centinaia di altre realtà editoriali in Europa e oltre – si misurerà inevitabilmente con operazioni straordinarie: ipotesi di fusione, di acquisizione attiva o passiva, richieste di nuovi capitali.

Un’attenzione specifica merita anche come e dove Cairo è intervenuto per rianimare Rcs e il Corriere. Il controllo dei costi è uno strumento collaudato nella cassetta degli attrezzi di Cairo, che lo ha infatti usato fin dai primi giorni anche in via Solferino (e in questo Rcs si è allineata a Espresso-Repubblica nella ricerca dell’efficienza propria dell’amministratore delegato Monica Mondardini). Nel contempo, tuttavia, Cairo ha cominciato a lavorare sul fronte dei ricavi, più delicato ancora. Qui può aver sorpreso – ma solo inzialmente – il rifiuto di imboccare il mainstream digitale e l’impegno a estrarre valore “maledetto e subito” dal Corriere cartaceo.

Di qui una svolta che avrà fatto alzare qualche sopracciglio ai puristi: l’aumento delle pagine dedicate agli stili di vita, al tempo libero, alla salute, ai consumi, alla moda, ai viaggi. È evidente una più marcata logica di media partnership offerta a inserzionisti “2.0”, interessati allo story-telling di qualità su un “portale giornalistico” di massima qualità, comunque entro gli standard di una fairness riconoscibile per il lettore. Idem per il nuovo dorso economico (oggi in edicola per la seconda volta): chiaro il tentativo di intercettare nuovi flussi di fatturato su nuovi prodotti-media.

La presa d’atto manageriale da parte del Corriere di Cairo è stata in ogni caso netta e franca: dopo un decennio di sconvolgimenti di ogni natura (non solo per l’industria media), né la vendita dei contenuti editoriali tradizionali, né quella di spazi pubblicitari tradizionali, il tutto a prezzi tradizionali (pre-2008) è più realistica sul mercato e capace di garantire equilibri economici tradizionali. Per mantenere spazio ai contenuti giornalistici in stenso stretto, di qualità e ad alto costo di produzione, è necessario trovare spazio per contenuti giornalisti “a diversa qualità”. Contenuti che abbiano appeal giornalistico per il lettore (arricchendo l’attrattività del prodotto), ma anche forza di generazione di fatturato “media partnership”.

È ovvio che in un clima d’opinione pubblica globale ossessionato dalle “fake news” non è facile far quadrare tutti i conti di un’evoluzione del rapporto prodotto-mercato. Uno dei meriti del primo bilancio Rcs firmato da Cairo è l’aver dimostrato che è possibile provarci: che una redazione come quelle del Corriere – con un editore come Cairo – può provare a continuare a fare dopo 140 anni un quotidiano cartaceo vero e di qualità. Con conti che possono tornare in ordine senza portare all’estinzione una professione che può ancora trovare spazio in una democrazia di mercato, rafforzandola.