Il futuro è un’ipotesi, cantava già anni fa Enrico Ruggeri. L’Europa nasce come futuro e finisce come colpa. Brutta fine. Ma allora l’Europa è finita? Sì, è finita. È finita rispetto al Trattato di Roma che, il 25 marzo 1957, sancisce la Cee (Comunità economica europea), mutando i connotati, di fatto, della primitiva Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), nata in Francia (Trattato di Parigi del 18 aprile 1951). Un mercato comune, dunque, una tavola rotonda non di belle intenzioni, ma di menti, cuori ed energie sopravvissute e poi prosperate, all’indomani della Seconda guerra mondiale. Non a caso, protagonisti Jean Monnet e Robert Schumann. I segni dei bombardamenti erano ancora visibili sui palazzi e sulle chiese delle città, anche del Nord Europa, e gli statisti coraggiosi del tempo che fu compresero che l’unione, fondata sulla sussidiarietà e il principio di alcune regole comuni, poteva essere la carta vincente del futuro. E oggi?



Semplicemente, stiamo parlando di un’altra cosa, oggi. L’Europa di quel tempo era una comunità che aveva chiare le proprie radici, non si facevano dibattiti per escluderle poi dalla Costituzione, la cristianità era fiorita da quelle parti e questo aveva creato anche la sana laicità. Questa Europa è figlia del suicidio della modernità, Juncker è il sacerdote del nulla burocratico e Draghi il vate di un equilibrio finanziario che non esiste più neanche sui manuali della Bocconi, da sempre pronta a dire “va tutto bene, madama la marchesa”, perché l’economia, quando diventa sussurro ideologico sulla finanza e stop, non soltanto una “dismal science” come diceva Carlyle, ma anche una “dark ideology”. Ma tant’è, questo è lo stato dell’arte.



A fronte di mutamenti strutturali dell’economia-mondo, un tempo rivisitata a misura di Marx e infine rovesciata in profezia della globalizzazione (altra lettura ideologica), l’Europa dell’eurocrazja si è ridotta al fantasma che circola nella cattedrale, pardon, nel museo delle cere, tutto qua. Dalla fine degli anni ‘70, l’Europa è segnata da una decadenza profonda, il post-’68 l’ha ridotta a un deserto senza via di uscita. La fine della cristianità come paradigma e anima profonda rende la sua agonia, già vaticinata da Maria Zambrano, un fatto testardo e duro a morire, insistente e padrone del territorio umano costituito da quel poco più di 600 milioni di europei, un angolo minore e colmo di minorità. Il Pacifico, ieri tormentato dal crollo dell’Asse e col Giappone sconfitto, e una Cina minacciosa, oggi è il futuro che viene dal futuro, proprio da quel futuro che ieri era l’Europa.



Nuovi futuri possibili si insediano prepotentemente e perfino il Vietnam oggi è più interessante della Germania che decade anche nel dettaglio burocratico-procedurale legato alla sicurezza, come si coglie ogniqualvolta qualche mente jihadista voglia fare una capatina da quelle parti. È un mondo che mina la natalità, preferisce essere dhimmi e colpa piuttosto che sovranità allargata centrata sui principi già affermati da Benedetto XVI, l’unico tedesco ad aver colto in tempi non sospetti la fine della sua terra, forse perché un uomo della Baviera si connota prima di tutto perché cattolico e, solo dopo, perché tedesco. Rileggere il suo saggio sull’Europa e la teologia in crisi illumina di più che sbadigliare sull’ultimo rapporto della Bce, ma, ancora una volta, tant’è, come dire? C’era una volta l’Europa. Oggi c’è solo una lacerante memoria che, per pudore, non assimiliamo allo sbadiglio richiamato da Eliot, a proposito della fine del nostro mondo, ma, com’è noto, non sarà il pudore a salvarci, soprattutto quando non circola più tra le anime morte targate eurocrazjia. Solo un Dio ci può salvare.