Nelle ultime settimane il cambio euro/dollaro era entrato in una fase ribassista, dovute alle recenti tensioni politiche in Europa e al perdurare della crisi che sta riportando la Grecia sullorlo del default. Ma dopo aver toccato i minimi sforando di poco al ribasso il valore di 1,05, ha avuto un improvviso rialzo fino a superare di poco 1,07. A provocare il rialzo è stata la notizia di un inizio di discussione all’interno della Bce sull’ipotesi di un rialzo dei tassi di interesse. Ovviamente se la moneta è più cara (diventa più caro prenderla a prestito) il valore sui cambi si apprezza.
Potrebbe sembrare un fatto positivo, ma in questa situazione, nella zona euro, c’è sempre chi si avvantaggia e chi invece ne ha uno svantaggio. Questi sono i classici difetti di un’area valutaria non ottimale, nella quale è presente una moneta unica. E nel caso in questione a trarne un certo svantaggio sono quei paesi che esportano di più, come la Germania. Ma c’è un altro aspetto, ben più grave. Un rialzo dei tassi renderebbe immediatamente più scarsa la moneta all’interno del sistema bancario. Questo porterebbe sia a un ridimensionamento del valore delle azioni bancarie (e quindi a una caduta delle borse), sia a un minore afflusso di liquidità dalle banche agli investimenti in borsa (con ulteriore accentuazione della caduta). Tale caduta del resto è stata già ampiamente prevista dagli esperti analisti di borsa in conseguenza del rialzo dei tassi e della fine del Qe, con l’unico dubbio sulla tempistica di tale caduta.
Uni simile tensione sui mercati finanziari avrebbe ovviamente una ricaduta sui titoli di Stato e sulla tenuta del sistema euro, perché un conto è salvare la Grecia (salvataggio che già sette anni fa ho definito inutile, perché avrebbe comunque accresciuto il debito e non risolto la crisi), un altro è salvare paesi come l’Italia o la Francia. Non ci vuole molto a capire che operazioni di questa portata sarebbero impossibili da gestire, finanziariamente e politicamente.
Il mercato finanziario sa bene tutto questo e la conseguenza è visibile nel mercato dei Cds (credit default swap), cioè quei contratti derivati acquistati da chi vuole assicurarsi contro il rischio di default di un determinato Paese. E su tale mercato, oltre a un sospetto boom di scambi sui Cds dell’Olanda (probabile frutto dell’incertezza politica interna e delle prossime elezioni), desta impressione l’aumento dei Cds sui titoli di Stato della Francia (a 70 punti base) e dell’Italia (a 183 punti base), saliti entrambi ai massimi degli ultimi quattro anni. Impressionanti anche i volumi di scambio dei Cds sull’Italia, con un valore di 5,3 miliardi di dollari come nuovo massimo nell’ultimo anno.
Insomma, tutto lascia pensare che sarebbe meglio non rialzare i bassissimi tassi di interesse dell’euro. Ma la politica dei bassi tassi di interesse dura da troppo tempo, ha riempito di bolle finanziarie ormai tutti i settori ed è fin troppo facile prevedere una prossima impennata dell’inflazione causata non dalla ripresa economica, ma dalla semplice liquidità in eccesso. E un sorgere dell’inflazione già si vede, ovviamente in modo diseguale nei vari paesi europei, disuguaglianza proprio dovuta al fatto di non trovarci in un’area valutaria ottimale, cioè un’area dove i sistemi economici, finanziari e fiscali sono in condizioni simili e hanno indicatori simili.
Quindi, in queste condizioni non dobbiamo meravigliarci se l’inflazione della Germania a gennaio è stata dell’1,9% (record degli ultimi quattro anni) e in febbraio del 2,2%. Ma in Francia siamo all’1,2% e in Italia all’1%. In questi termini l’inflazione diventa anche un problema politico, poiché l’inflazione è sentita direttamente dalla popolazione che rischia di rivoltarsi politicamente contro il proprio governo. Quindi, la Merkel è in qualche modo costretta a fare la voce grossa contro Draghi, chiedendo in rialzo dei tassi di interesse. Ma la Merkel è pure isolata in questa richiesta, perché gli altri paesi l’inflazione non la vedono proprio e un rialzo dei tassi spazzerebbe via una ripresa ancora fragilissima.
Il rialzo dei tassi non è di per sé un evento catastrofico; ma nella situazione attuale, con una crisi spaventosa mai risolta e tenuta nascosta da tassi eccezionalmente bassi e da grandi afflussi di liquidità, la mossa sbagliata diventa come accendere un fiammifero in una polveriera. Insomma, se Draghi cede alle pressioni del Paese più influente e forte rischia di innescare la catastrofe finanziaria, se invece non li rialza rischia il dissolvimento dell’Europa e della moneta unica.
Si è cacciato in un vicolo cieco e l’uscita traumatica rischia di essere per noi e per i popoli europei molto dolorosa.
P.S.: Sono anche usciti i dati sulla produzione industriale italiana. Un mese fa il governo affermava sicuro di aver fatto uscire l’Italia dalla crisi, poiché il dato annuale segnava una crescita dell’1,4%, mentre il dato mensile addirittura arrivava a una crescita del 6,8%. Tutto benissimo secondo il governo (anche se il debito pubblico toccava nuovi record e la disoccupazione rimaneva stabilmente superiore all’11% e quella giovanile si avvicinava al 40%). Ora invece i dati aggiornati (mese di gennaio) riportano la produzione industriale annuale al -0,5% e quella mensile al -2,3%. Forse i dati del mese precedente erano dovuti ai fuochi d’artificio di fine anno. Ora invece a gennaio siamo tornati al lavoro e ai ponti che crollano, non solo nella realtà, ma anche nelle statistiche economiche. La strada verso la ripresa economica che hanno disegnato è un passaggio sotto un ponte privo di adeguata manutenzione, capace di crollare quando meno te lo aspetti.