Come mai si scappa dal debito italiano e tedesco? Perché gli investitori internazionali sembrano scommettere su tensioni tra il nostro Paese e Berlino, quasi uno showdown, ma corrono a posizionarsi su Francia e Spagna, quasi a escludere una crisi sistemica dell’eurozona? Nel suo bollettino economico pubblicato ieri la Bce, analizzando le dinamiche verificatesi nei primi nove mesi del 2016, ha infatti rilevato come gli investitori esterni all’area euro abbiano effettuato dismissioni di titoli di Stato dei Paesi dell’unione valutaria, riposizionamenti di cui l’Italia, insieme alla Germania, ha risentito maggiormente rispetto ad altri paesi. L’Eurotower ha affermato che «dati a livello di singoli Paesi mostrano deflussi netti di investimenti di portafoglio per i maggiori Paesi dell’area euro, dovuti alle vendite nette da parte di investitori esteri di titoli di debito nazionali e agli acquisti netti di attività estere da parte di investitori domestici», sottolineando appunto come «le maggiori vendite nette di titoli di debito da parte di investitori esteri sono state registrate in Italia (4,1% del Pil), seguita dalla Germania (3,1%) e dalla Spagna (1,8%)». All’opposto «gli investitori esteri sono stati acquirenti netti di titoli di debito francesi (con acquisti netti pari all’1,2% del Pil)» Ma non dobbiamo temere la potenziale Frexit che una vittoria della Le Pen alle presidenziali potrebbe portare con sé? Ora siete convinti che sono balle o devo dirvelo in qualche altra lingua?
Spagna e Francia hanno infatti registrato «afflussi netti di investimenti di portafoglio in titoli azionari da parte di investitori esteri», tanto che si sono poi osservati «marcati flussi netti di investimenti di portafoglio transfrontalieri in titoli azionari a livello di singoli Paesi, i quali sono riconducibili ai significativi flussi transfrontalieri all’interno dell’area verso fondi di investimento, domiciliati principalmente in centri finanziari dell’area». Ma non basta, perché ieri la Bce ha fatto anche altro, garantendo benzina al mercati azionari europei. La Banca centrale europea ha infatti assegnato 233,473 miliardi di euro di fondi a quattro anni nella quarta e ultima finestra del secondo programma Tltro (Targeted long-term refinancing operations), accogliendo le richieste presentate da 474 banche della zona euro: le attese degli operatori attivi sul mercato monetario suggerivano per l’asta di ieri un’assegnazione di 125 miliardi di euro. Siamo arrivati a quasi il doppio: cosa significa? Che le banche sono disperate alla ricerca di liquidità.
L’importo raccolto va infatti ad aggiungersi ai 507 miliardi di euro assegnati nelle tre precedenti operazioni Tltro2, il cui schema prevede che gli istituti possano vedersi riconosciuta una remunerazione sui fondi ottenuti in prestito dalla Bce, purché incrementino oltre una determinata soglia gli impieghi nei confronti di imprese e famiglie. Le banche in teoria potrebbero infatti ottenere i fondi a un tasso negativo, fino al -0,40%, attuale livello di penalizzazione applicato alla liquidità depositata a fine giornata presso l’Eurotower. Ma come, nonostante il Qe, ci si azzuffa per ottenere altra liquidità? Oltretutto, con il dato sugli impieghi che ci mostra come il credito verso famiglie e imprese, almeno in Italia, non sia certo stellare, anzi. A cosa serve, quindi, quel denaro? Accantonamenti, va a bilancio per imbellettare i conti al netto di detenzioni obbligazionarie e, soprattutto, non-performing loans: certo, un minimo di trasmissione del credito è necessaria, altrimenti la Bce è costretta a intervenire ma parliamo proprio di briciole o poco più. Di fatto, la Bce finanzia gli stessi aumenti di capitale su cui finge di vigilare e di emanare approvazioni o bocciature. Il sistema bancario europeo, al netto dei proclami e degli stress test dell’Eba, è tutto tranne che sano: boccheggia in cerca di liquidità.
E attenzione, perché questa criticità non è affatto limitata all’Europa e ha molto a che spartire con le quotazioni del dollaro legate al rialzo dei tassi operato dalla Fed, oltretutto con aspettative di altri tre ritocchi all’insù, stante il dato inflazionistico Usa innescato dalla politica economica di Donald Trump. Guardate il grafico qui sotto: ci mostra come se durante la cosiddetta crisi della liquidità bancaria registrata nel 2013 in Cina, il costo relativo del finanziamento per le istituzioni non bancarie fosse salito a 100 punti base, negli ultimi pochi giorni quello stesso indicatore sia letteralmente esploso a 250 punti base, quasi il record storico. I money markets cinesi non stanno chiedendo attenzione, stanno letteralmente gridando.
Se i tassi di interesse interbancari sono saliti lungo tutta la curva, l’aumento di quelli riguardanti le società non bancarie, incluse le securities companies, è stato davvero inusuale: a oggi, di fatto, stanno pagando quello che è un vero e proprio premio record per il finanziamento a breve termine rispetto a quanto dovuto dalle principali banche cinesi. Questo premio riflette il gap tra il fixing del tasso repo cinese a 7 giorni e un tasso medio ponderato che, mercoledì pomeriggio, si è ampliato fino a qualcosa come il 2,47%, dopo che alcune piccole istituzioni finanziarie hanno forzatamente saltato alcuni pagamenti dovuti sul mercato interbancario. E la storia ci dice che se le principali e maggiori banche influenzano di più la media ponderata, le istituzioni non bancarie tendono ad avere un’influenza maggiore sul fixing del tasso repo.
Il problema è esacerbato dal fatto che, se l’ambiente attuale rende maggiormente complicato e caro il finanziamento sul mercato delle istituzioni non bancarie, i grandi istituti che hanno accesso al finanziamento regolatorio non stanno più prestando denaro all’esterno o lo fanno con il contagocce: questo porta con sé un qualcosa di pericoloso, perché senza un accesso ai depositi o alle facilities di liquidità della Banca centrale, molte istituzioni non bancarie cinesi rimangono alla mercé di money markets molto volatili. E la Pboc sta giocando un duplice ruolo in questa situazione, molto rischioso, visto che da un lato è stata proprio la Banca centrale a imporre tassi più alti negli ultimi mesi per incoraggiare una riduzione della leva, ma dall’altro è sempre intervenuta ogniqualvolta c’è stata necessita di evitare un crunch sulla liquidità: come si può pensare di dare una reale direzione al mercato, operando in un senso e nell’altro?
E se nei prossimi giorni è probabile che i tassi interbancari rimangano alti, visto che la Pboc sta operando la sua revisione prudenziale sui bilanci, da concludersi entro marzo, dall’altro occorre sottolineare un particolare: il calo registrato ieri dal dollaro non sarà stata una mossa pilotata al fine di facilitare le condizioni finanziarie cinesi, visto che proprio il rally del biglietto verde sta spingendo il settore finanziario locale sul precipizio di un collasso della liquidità? Non è che l’ultimo aumento dei tassi operato dalla Fed vada letto unicamente come uno stress test a livello globale, ovvero una prova – finché il livello del costo del denaro è ancora straordinariamente basso e Bce e BoJ stanno ancora operando il loro Qe – per vedere la resistenza reale del sistema finanziario globale a condizioni monetarie normalizzate e a un dollaro forte? Se così fosse, direi che non dobbiamo aspettarci altre mosse della Fed almeno a fino dopo l’estate. Ma il problema resta, come testimoniato dall’asta Tltro della Bce e dai tassi fuori controllo cinesi: la sbronza di debito e leva degli ultimi anni, resa possibile proprio dai tassi a zero, ha sì garantito corsi azionari in rialzo, multipli di utile per azione in espansione e dividendi pagati ma ora il prezzo da saldare sembra arrivato in tavola.
Se la Fed rimarrà intrappolata in questo scenario, impotente nel proseguire il suo cammino di normalizzazione, quale messaggio arriverà ai mercati? E come farà la Bce a operare il tapering con l’approssimarsi della fine dell’anno, avendo già prospettato un possibile aumento dei tassi di deposito prima d chiudere il Qe? Volevate le conseguenze indesiderate delle politiche monetarie espansive? Eccovele servite.