C’è un Paese anormale alle prese con un problema normale: l’assimilazione, ordinata e regolata, del sano ma confuso avvento di una nuova forma di concorrenza in un servizio pubblico di largo consumo. Parliamo dell’Italia e dei taxi, di fronte alla sfida di Uber. Diciamo subito che il fenomeno è tutt’altro che esclusivamente italiano: contro l’irruzione “distruttiva” dei taxi-non-taxi di Uber i mal di pancia nel cosiddetto “Vecchio Mondo” accomunano tutta l’Europa meglio dell’euro. Perfino nella liberista Gran Bretagna la vita degli autisti Uber non è tutta rose e fiori. Ma il casino montato in Italia dai tassisti non ha eguali.



Se invece il nostro fosse un Paese normale, tanto dissidio non ci sarebbe. Ci sarebbe un legislatore in grado di regolare la materia come, malgrado le proteste delle compagnie aeree tradizionali, è accaduto perfino per le “low cost”. Ci vorrebbe poco per trasformare Uber nella “low cost” della strada. Tutelando i diritti dei tassisti, certo, ma anche e soprattutto gli interessi dei cittadini, senza per questo rendere impossibile la vita di Uber. In che modo? Con l’uso del semplice buon senso.



Qual è l’interesse pubblico rispetto al servizio di taxi? Chiaro: che gli autisti siano sani e professionali, e le loro auto siano a posto. In uno Stato di diritto, non è pensabile affidare alle recensioni, più o meno taroccate e taroccabili, degli utilizzatori di un servizio le classifiche di merito sulla qualità di chi lo eroga… Quindi, stelline o non stelline, sarebbe sacrosanto che chi vuole vivere scarrozzando il prossimo dovesse dimostrare allo Stato, e non a Internet, di avere una buona vista, o in mancanza di usare gli occhiali giusti, di avere riflessi pronti, di non essere alcolista e di non andare soggetto a colpi di sonno o essere cardiopatico. È chiedere troppo?



Sarebbe sacrosanto che i nuovi tassisti dovessero dimostrare – nuovamente: allo Stato, e non a Internet – di avere auto buone, con i freni efficienti, poco inquinanti. Che poi spesso questi requisiti difettino anche ai tassisti tradizionali è un grave difetto dell’ordinamento di ieri e di oggi, non una buona ragione per aggiungere caos al caos. E poi: se in tutta Italia fino a ieri le licenze di taxi sono state contingentate e, quindi, hanno raggiunto soprattutto nelle grandi città prezzi iperbolici, tali da rappresentare una specie di “liquidazione” per il tassista che lascia l’attività, è una cosa giusta e legittima, che non può essere cancellata solo per far piacere allo sbilenco “Unicorno” di Silicon Valley… che lucra (poco, peraltro, visto che è ancora in perdita marcia) sul lavoro sottopagato dei milioni di pseudotassisti che si arrangiano a guidare non trovando lavoro migliori da svolgere.

Occorre trovare un modo nuovo per giustificare una certa tutela del valore delle licenze. Per esempio, impedendo l’uso delle corsie preferenziali ai conducenti di Uber, o l’accesso nei centri storici senza pagare le eco-tasse… Preservando, insomma, una sia pur ridotta condizione di vantaggio a favore di chi ha pagato cara la sua licenza. Inoltre, sarebbe necessario che la tassazione sui proventi degli autisti di Uber venisse equiparata a quella oggi applicata, peraltro in regime forfettario, ai tassisti convenzionali. 

Introducendo questo genere di clausole disincentivanti a carico di Uber, si ridurrebbe – pur senza eliminarlo del tutto – l’imbarazzante divario di prezzo che oggi si misura tra le tariffe dei taxi normali e quelle di Uber. Preservando uno spazio di mercato per Uber, e un’opportunità di risparmio per i cittadini, senza strangolare i tassisti. Senso della misura, scelte equilibrate: il compito della politica. Proprio com’è accaduto con le low cost nell’aerotrasporto: convengono, certo, ma a conti fatti, sommando i prezzi stracciati dei biglietti a quelli degli extra, i costi effettivi in molti casi e su molte tratte non sono poi così sideralmente lontani da quelli delle compagnie tradizionali che, se ben gestite (quindi non parliamo di Alialia), sono infatti riuscite a difendere almeno in parte il loro spazio di mercato.

A monte di tutto, dovrebbe esserci un concetto che in Italia sembra invece dubbio e contestato: che cioè lo Stato ha il diritto di regolare con nuove norme “ad hoc” i fenomeni “disruptive” della Rete, come appunto Uber. Regolarli non significa eliminarli: significa moderarli, nell’interesse di tutti. Al bando i confronti impropri con gli Stati Uniti: è davvero sbagliato farli, come confrontare cavoli e pere. Non dimentichiamoci, per favore, che gli Stati Uniti sono un Paese dove si contano più armi da fuoco che cittadini e le vittime umane da arma da fuoco sono di 10 ogni 10 mila abitanti, contro le 0,7 dell’Italia. Vogliamo continuare con i confronti? Sembrerebbe inutile.

Gli Stato Uniti sono un Paese sterminato e ricco, su un territorio grande quanto la Cina vive un sesto della popolazione cinese, 31 abitanti contro 140 per chilometro quadrato, in Italia 206. Basterebbero questi dati per far capire che ogni confronto sociodemografico è improprio tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Perché insistere nell’applicare fuori dagli Usa costumi e metodi che solo nell’isola più grande del mondo, il Nordamerica, possono funzionare?