Ieri il capo economista della Banca centrale europea, Peter Praet, è stato intervistato dal Sole 24 Ore. L’intera intervista è un appello in favore dell’euro e un monito all’Italia per cui “il ritorno alla lira non sarebbe una soluzione ai suoi problemi”. In sostanza i dubbi sull’euro sarebbero frutto di una narrazione che si dimentica i tassi di interessi a due cifre e che, volutamente, trascura il fatto che l’Italia negli ultimi anni non abbia fatto i compiti a casa “nel sistema dell’istruzione, nella partecipazione femminile alla forza lavoro, nella preparazione della manodopera, nella qualità della Pubblica amministrazione, nella diffusione delle tecnologie”. Anche questa volta ci sembra che con queste obiezioni si voglia eludere completamente la questione. Nessuno si sogna di pensare che l’Italia abbia fatto tutti i compiti a casa, soprattutto quello più importante su una Pubblica amministrazione ormai completamente fuori controllo nei costi e nelle responsabilità. Ma questo non è il punto; la questione non è che con la lira l’Italia risolverebbe i suoi problemi, la questione è se l’euro sia o meno un problema in più per l’Italia.
Praet dovrebbe spiegarci perché l’Italia è l’unico Paese europeo che sta peggio dall’introduzione dell’euro, perché sia la Grecia che la Spagna stanno meglio rispetto a prima dell’integrazione europea. Praet dovrebbe spiegarci anche perché la produzione industriale italiana ha rotto una decennale correlazione con quella tedesca – eravamo bravi come i tedeschi – proprio con l’introduzione dell’euro (lo si può notare nel grafico a fondo pagina). L’euro è in realtà solo uno dei problemi della permanenza dell’Italia nell’attuale costruzione europea. L’Italia ha accettato l’austerity con conseguenze tragiche, ma la Germania non rinuncia al suo surplus, la Francia compra risparmio e industria italiana con una forza che non sarebbe possibile se non si potesse fare leva su una valuta e su regole comuni, ma erige barriere incredibili, è il caso di Fincantieri, per acquisizioni che sono un decimo di quelle fatte in Italia. La rigidità europea sul salvataggio delle banche italiane può essere scambiata per amore sincero per le regole solo da inguaribili ingenui, soprattutto se questa rigidità la condanna a un anno di crisi e sfiducia dei consumatori; l’Italia è la stessa che ha usato i soldi dello scudo fiscale di Tremonti per il primo salvataggio della Grecia. Possiamo passare in rassegna la guerra fatta all’Italia in Libia dalla Francia o gli effetti delle sanzioni europee contro la Russia sulle sue politiche energetiche, mentre invece non ci sono problemi per i gasdotti che passano in nord Europa e arrivano in Germania.
L’elenco è molto lungo, ma la questione di fondo è che il tasso di disoccupazione italiano è stabilmente sopra la doppia cifra e lo sarà per i prossimi anni se tutto va bene. Se qualcosa andasse male, ci fosse una crisi globale magari per tensioni geopolitiche, e si dovesse fare un’altra manovra di austerity, senza alcuna politica anticiclica, perché l’Europa lo vuole, l’Italia sprofonderebbe. Questa non è fanta-finanza. La crisi del 2012 italiana, quella che ci ha regalato Monti e l’austerity, non solo sembra ogni giorno che passa sempre più sospetta ed eterodiretta, ma è il frutto della crisi del 2008 che ha colpito tutti. Ormai si leggono “papers” e ricerche che dimostrano come senza l’austerity europea oggi i conti pubblici italiani sarebbero migliori; lo scrivono premi Nobel non pericolosi populisti. I risparmi sono stati più che controbilanciati dalla crisi economica causata dalla stretta fiscale. L’Italia con la lira e senza Europa come sarebbe uscita da quella crisi? Sicuramente senza la colonizzazione industriale e finanziaria che ne è seguita.
La cartina al tornasole per l’Italia è la Grecia. In Grecia la disoccupazione è al 25% e veniamo da cinque anni di politiche monetarie ultra-espansive e da una fase di espansione dell’economia americana senza precedenti. Se ci fosse una crisi globale di qualche tipo cosa succederebbe alla Grecia? Ma soprattutto cosa le chiederebbe l’Europa? La cessione delle isole alla Germania? Sembra uno scherzo, ma è quello che è riuscito a dire qualche politico tedesco. È chiaro che l’Italia riceve dall’Europa dei tassi sul debito che sono meno della metà di quello che pagherebbe, ma anche la Germania riceve dall’Europa una valuta che è molto più debole di quello che si meriterebbe. Questo scambio non è senza prezzo: il costo è un declino lento e inesorabile, perché per meriti o demeriti suoi la costruzione europea va benissimo per la Germania e malissimo per l’Italia, che oltretutto non ha peso politico. La debolezza economica italiana diventa un mezzo per impedirle di far sentire la sua voce “politica” in Europa.
Non serve un economista della Bce per scrivere l’ovvio e cioè che la lira non è la soluzione dei problemi italiani. Qualcuno però dovrebbe avere il coraggio di dire che invece l’euro e l’Europa vanno bene per l’Italia esattamente come vanno bene per la Germania. Nessuno ha il coraggio di dirlo perché è un’enormità che diventa ogni giorno più difficile da difendere; l’Italia, fortunatamente, non sarà mai la Germania e non le potrà mai andare bene un modello disegnato sugli elementi di forza tedeschi. Quando comparirà un muro sul Brennero per non fare entrare i migranti si darà la colpa all’Italia a cui è stata bombardata la Libia mentre la Germania faceva gli accordi con Erdogan con i soldi europei? Oppure ci dimenticheremo della Francia che oggi si pone gli stessi problemi italiani con la metà della sua disoccupazione e Marine Le Pen primo partito tra i giovani? Anche la Francia ha il problema di non saper diventare tedesca?