Oggi si svolgono le celebrazioni per i 60 anni dai Trattati di Roma, al termine delle quali verrà firmata una Dichiarazione che, nelle intenzioni, dovrà fungere da punto di rilancio per l’Ue. Tuttavia sembra sia stata accantonata l’ipotesi di un’Europa a più velocità, perché non gradita ai paesi dell’Est. Il rischio è che il documento sia alla fine privo di vere proposte in grado di condizionare, in meglio, il futuro dell’Unione. E anche Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, ritiene che «alla fine si arriverà a un documento “di attesa”, perché ci sono appuntamenti cruciali come il voto in Francia e Germania, senza dimenticare che Mario Draghi è entrato nel suo ultimo anno di Presidenza della Bce e bisognerà quindi eleggere, all’inizio del 2018, il suo successore».
Come giudica la situazione dell’Europa a 60 anni dei Trattati di Roma?
Ci troviamo in una situazione quasi schizofrenica: da un lato, vogliamo una maggiore integrazione e unità, dall’altro, come testimoniano anche i risultati delle elezioni olandesi, dove Wilders comunque di voti ne ha presi, esiste ormai una forte perplessità nei confronti del progetto europeo. Questa perplessità è la conseguenza di una ragnatela di regole con una trama talmente fitta che in molti casi porta alcuni paesi, compreso il nostro, alla paralisi. Per questo è decisamente dannosa.
Come possiamo venire fuori da questa situazione?
La mia opinione è che in questo momento abbiamo bisogno di alcune regole nuove. Questo significa non dico una revisione dei trattati, ma quanto meno una serie di aggiustamenti, perché altrimenti rischiamo comunque la disgregazione. Infatti, vogliamo l’unità, ma poi prendiamo decisioni che vanno in direzione contraria. È del resto un fatto oggettivo che dentro l’Unione europea coesistono realtà economiche che sono divergenti in un modo eccessivo. Faccio un esempio concreto.
Prego.
I dati Eurostat dicono che il livello dei prezzi di Danimarca e paesi limitrofi è il triplo di quello di Bulgaria e Romania. Questo fa sì che nascano i fenomeni che poi generano paure e risentimenti. È chiaro infatti che un cittadino bulgaro o rumeno è spinto ad andare a lavorare in Danimarca, così da guadagnare il triplo di quello che guadagnerebbe a casa trovando un lavoro. È lo stesso meccanismo che negli anni ’50 ha prodotto il miracolo economico italiano, quando, per esempio, un cittadino della Puglia si spostava a Torino per lavorare alla Fiat, raddoppiando il suo tenore di vita. Certo, esistevano problemi di integrazione come oggi. Però il dato di fondo è che è stato un periodo di fortissima integrazione fra nord e sud. L’Italia è diventata un Paese più unito, almeno sul piano economico. Lo stesso fenomeno, con una complessità ovviamente maggiore, si sta verificando in Europa.
L’integrazione è quindi un bene, ma come evitare che le “forze centrifughe” abbiano la meglio?
Il punto centrale è il ruolo della Germania, che ha un’importanza enorme all’interno dell’Unione europea, ma che si trova al centro delle più importanti contraddizioni nei rapporti internazionali. Dobbiamo infatti ricordare che i tre grandi partner commerciali della Germania sono il Regno Unito, che ora lascerà l’Ue, gli Usa, i cui rapporti con Berlino abbiamo visto tutti come sono cambiati con Trump, e la Cina, che ha causato non pochi problemi all’Ue e ad alcuni suoi paesi in particolare, basti pensare a dov’è finito il nostro settore tessile.
Cosa deve fare allora la Germania?
In virtù di un avanzo delle partite correnti che è a dir poco gigantesco, ha una responsabilità, anche perché tra le tante regole europee c’è anche quella sul surplus commerciale che Berlino infrange da diversi anni. La Germania può quindi fare investimenti sulle sue autostrade, sulla sua rete ferroviaria. Può fare cose che vanno a proprio beneficio, ma che poi finiscono per essere positive anche per l’Europa. I pensionati sono infuriati con Draghi perché i tassi bassi erodono i loro risparmi? Il Governo aumenti i loro assegni: se i tedeschi stanno meglio cominceranno a mettere in movimento anche la macchina economia europea. È un modo un po’ contorto per cercare la convergenza, ma è comunque qualcosa.
Ce ne sarebbe uno più diretto?
Il modo più diretto è attraverso grandi investimenti di respiro europeo. Ci ha provato Juncker, con risultati limitati. Occorrono dei grandi progetti infrastrutturali di cui l’Europa ha bisogno e che generano immediatamente occupazione e reddito.
(Lorenzo Torrisi)