Oggi 5mila uomini delle forze dell’ordine vigileranno a Roma sulle celebrazioni dei 60 anni dei Trattati fondativi dell’Unione europea, appuntamento che ha portato nella capitale il gotha dell’Ue e che ha innescato i timori per contestazioni violente e per possibili atti terroristici. Speriamo vada tutto liscio, ma la questione è un’altra: per quanto possa spegnere candeline in favore di telecamera, l’Europa come la conosciamo è già morta. Partiamo da un presupposto, ovviamente tutto mio e che non intendo assolutizzare: a chi continua a ripetere che l’Ue ci ha garantito 70 anni di pace, faccio sempre notare con estremo rispetto che a preservarci da guerre intestine ci ha pensato un muro figlio del Secondo conflitto mondiale e rimasto in piedi fino al 1989. Quel muro, piacesse o meno, era l’architrave di un equilibrio chiamato deterrenza, nel mio modo di vedere il lato positivo della Guerra fredda: ovvero, dopo i morti del 1939-1945, tutte le parti in causa sapevano che un terzo conflitto sarebbe stato nucleare e, quindi, potenzialmente definitivo. Questo ci ha preservato dalle guerre, non gli accordi sul carbone: con tutto il valore che può aver avuto il bacino della Ruhr, i missili con testata nucleare puntati sulle rispettive capitali sono più convincenti. 



Al netto di questo, vediamo come l’Ue arriva a questo appuntamento: solo in extremis si è evitato che la Polonia si impuntasse rispetto alla questione Tusk, diatriba che poteva portare alla mancata firma del documento finale: un bello smacco, al netto di un’Unione già a 27 per il bye bye di Londra. Stesso discorso vale per la Grecia, con l’inutile Alexis Tsipras che ha tentato l’ennesimo ricatto alla camomilla rispetto ai termini del programma di salvataggio e, soprattutto, di riforme imposte al suo governo. Come già detto, il Regno Unito mercoledì prossimo attiverà l’articolo 50 del Trattato di Lisbona per dare il via al Brexit, mentre Germania e Olanda hanno in corso un contenzioso molto delicato con la Turchia che potrebbe avere come epilogo un disastroso abbandono da parte di Ankara dell’accordo sui migranti: se così fosse, frontiere con Bulgaria e Grecia aperte, riattivazione emergenziale della rotta balcanica, ma al netto di Ungheria e Serbia che hanno già alzato nuovi muri e dichiarato che non accetteranno mai passaggi e salvacondotti. 



Economicamente parlando, per quanto ieri la lettura del Pmi dell’eurozona parlasse di un risultato ai massimi da sei anni a marzo, la situazione reale è nota anche ai sassi: senza il Qe della Bce, saremmo in rovina. Primo, le aziende dovrebbero finanziarsi sul mercato e non presso l’Eurotower a costo zero e senza valutazione del rating. Secondo, gli spread seguirebbero dinamiche di mercato e non solo flussi speculativi controllati. Terzo, l’enorme casinò del sistema bancario europeo sarebbe già saltato sotto il peso di non-performing loans, esposizione ai derivati e detenzioni tossiche di debito. Possono dirmi ciò che vogliono, ma la realtà è questa, tanto che il minimo accenno al tapering delle misure di stimolo fa drizzare i capelli in testa e il dato dell’inflazione viene guardato con sempre maggiore preoccupazione da tutti, anche dagli ottimisti a oltranza. 



Ma attenzione, perché oggi i leader europei si siederanno in Campidoglio con un pensiero in più nella testa e un pensiero non da poco: l’incontro a sorpresa tenutosi ieri a Mosca tra Vladimir Putin e Marine Le Pen. Quasi a voler stuzzicare chi fino a oggi continuava ad agitare lo spettro degli hacker russi e delle interferenze del Cremlino nelle elezioni statunitensi – l’Fbi non ha meglio da fare, in un Paese dove Chicago ha sono la stessa frequenza di omicidi di Johannesburg, che continuare a montare indagini senza costrutto al riguardo -, il Presidente russo ha dichiarato che Mosca non intende assolutamente interferire con il voto francese, ma che, altresì, non lascerà che venga limitato il suo diritto ad avere rapporti con chiunque. Chi, invece, ha messo in chiaro la situazione è stata la candidata della destra: se verrà eletta all’Eliseo, non solo toglierà le sanzioni a Mosca, ma riconoscerà anche la Crimea come territorio russo. Direte voi: e come farà, visto che la Francia fa parte di quell’Ue che ha emanato le sanzioni proprio per punire l’operato russo in Ucraina? Semplice, perché Marine Le Pen ha detto da subito, chiaro e tondo, che se eletta darà il vita al Frexit, ovvero abbandono di Ue ed euro. 

Come sapete, fino all’altro giorno davo per impossibile l’approdo di Marine Le Pen all’Eliseo, ma quando Ivan Riufol su Le Monde parla di sondaggi riservati che vedrebbero l’esponente del Front National al 34% dei consensi al primo turno, allora conviene mettere qualche dubbio nel frullatore, anche alla luce di quanto accaduto nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Ed ecco il punto reale della questione. Come ricorderete, nel mio articolo di ieri davo conto del dato, diffuso dalla Bce, in base al quale i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi sono stati i più scaricati dagli investitori internazionali, a fronte di un aumento delle detenzioni di quelli spagnoli e francesi. Quale crisi bilaterale rischiano di dover affrontare Roma e Berlino per vedere questo recouple nelle loro vendite di titolo di Stato, visto che solitamente si assiste a un decouple, ovvero se scaricano noi, comprano Bund per avversione al rischio? Forse, perché il mercato sta già prezzando quale sarà l’epilogo politico che attende l’Italia il prossimo anno: vittoria dei Cinque Stelle, attivazione di un pericoloso e quantomai azzardato processo di allontanamento dall’Ue attraverso una modifica della Costituzione che renda possibile un referendum in stile Brexit. 

A confermarlo, parlando giovedì alla Stampa estera, ci ha pensato Luigi Di Maio, premier in pectore dei grillini, a detta del quale «l’euro non è democratico, mentre servono normative che consentano di uscire dall’euro in modo democratico e clausole che non costringano a entrare nell’euro… Ci dicono che è anticostituzionale, ma non è vero, perché passiamo attraverso una legge costituzionale per introdurre un referendum consultivo». Salvo poi chiedersi retoricamente se «in Italia si sta pensando a un piano B sull’euro, visto che le elezioni in Francia e Germania potrebbero influenzare le scelte sulla politica monetaria europea?». La solita sparata dei Cinque Stelle? Forse no, perché una risposta tutt’altro che ironica o sarcastica alla conferenza stampa di Di Maio è arrivata dal sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, a detta del quale non c’è alcun dubbio: un referendum sull’euro vuol dire far partire il countdown dell’Italexit. «La legge costituzionale per indire il referendum, infatti, passerebbe con il voto di M5S, Lega, FdI e magari un pezzo di sinistra antagonista e di Forza Italia». Dopodiché, senza maggioranza qualificata, la legge per indire la consultazione popolare sull’euro dovrebbe superare l’inevitabile referendum ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione: «Ovvio – chiosa Della Vedova – che già quel primo referendum, senza nemmeno bisogno di aspettare quello effettivo, sarà per tutti già quello per l’uscita dall’euro». 

E quale sarebbe l’ostacolo maggiore per un Italexit? Gli sbilanci in seno al sistema di pagamenti europei, Target2, con la Bundesbank pesantemente esposta e l’Italia costretta a un salasso a copertura, prima di poter dire addio al club europeo. Per questo si scarica il nostro debito e quello tedesco o è soltanto questione di differenziali? Una cosa è certa: se il vertice di oggi fosse uno degli ultimi con l’Europa in questo assetto, non mi stupirebbe affatto. A quali epiloghi dovremmo far fronte, è tutta un’altra faccenda. Ma il mercato già la prezza: ripetizione, più seria, dell’autunno 2011, crisi di governo e approdo di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Il problema è uno solo: da quei mesi di ottovolante, l’Ue non potrà uscire indenne, ovvero con tutti i suoi membri ancora vivi politicamente ed economicamente. Certo, se Marine Le Pen arrivasse davvero all’Eliseo, allora le prove di terremoto verrebbero anticipate. E, magari, i piani di qualcuno potrebbero saltare. Ci attendono tempi interessanti. 

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