L’Unione europea riparte dopo la ferita della Brexit, non a piena velocità, né con due velocità (almeno non formalmente), semmai con un comune denominatore. Se sarà minimo lo vedremo nei prossimi mesi, soprattutto dopo le elezioni francesi, quelle tedesche e quelle italiane. Il 2017, dunque, celebrando i 60 anni dell’atto che ha dato il via al cammino comune, passa già il testimone al 2018.



Il testo firmato ieri in Campidoglio dai 27 capi di stato e di governo, non rappresenta la prima pietra di una nuova architettura; possiamo dire che aggiunge un pinnacolo a questa cattedrale politico-istituzionale che non ha mai fine e proseguirà, scrive la dichiarazione di Roma, almeno per il prossimo decennio. Anche se la locuzione è stata accuratamente evitata, si dà la possibilità ai paesi che possono e che vogliono di andare avanti su alcune questioni di fondo, senza chiudere l’ingresso agli altri: sarà infatti una Ue dalle porte girevoli. Il documento lo dice in modo esplicito: “Agiremo congiuntamente, a ritmi e con intensità diversi se necessario, ma sempre procedendo nella stessa direzione, come abbiamo fatto in passato, in linea con i trattati e lasciando la porta aperta a coloro che desiderano associarsi successivamente”.



Sono quattro i territori sui quali deve cominciare l’esplorazione comune: politica sociale, dando gambe finalmente a quel che era stato scritto nel Trattato di Lisbona, sicurezza interna, difesa estera e immigrazione. Vasto programma per realizzare il quale ci vogliono condizioni politiche che oggi non ci sono: occorre una volontà comune sia dei popoli, sia dei loro leader, oltre a un riconoscimento chiaro ed esplicito dei valori sui quali si basa.

L’Economist ha dedicato la storia di copertina alla speranza di salvare l’Europa, e ha scritto che l’Unione può sopravvivere solo se è più flessibile. Da questo punto di vista, il documento di Roma risponde al criterio, ma la flessibilità può anche essere l’anticamera dello sfarinamento che porta alla consunzione se non è ancorata a valori comuni. Papa Francesco incontrando i 27 ha ricordato la solidarietà sulla quale si fonda la pace. Benedetto XVI nel suo discorso del 2011 al Parlamento tedesco ha sottolineato che l’Europa, anche quella odierna, ha tre capitali antiche: Gerusalemme, Atene e Roma, perché è nata “dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei greci e il diritto romano”.



Si dirà che è compito dei papi elevarsi al di sopra del contingente, ma la politica muore se non è in grado di indicare mete e ideali. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha fatto bene a non lasciare che il tutto si riduca a puro mercanteggiamento degli interessi e ha evocato “una nuova costituente”. In fondo, buona parte della disaffezione verso l’Europa non ha ragioni soltanto economico-sociali, ma nasce da questa perdita del traguardo comune. Una Unione senza fondamentali (come si direbbe con gergo sportivo), non esiste. “L’unità europea è iniziata come il sogno di pochi ed è diventata la speranza di molti”, scrive la dichiarazione di Roma, tale speranza va nutrita continuamente.

L’Italia vuole partecipare a questa Unione a velocità variabile, ma ne ha le possibilità? La dichiarazione di Roma parla di “un’Europa prospera e sostenibile: che generi crescita e occupazione; in cui un mercato unico forte, connesso e in espansione, che faccia proprie le evoluzioni tecnologiche, e una moneta unica stabile e ancora più forte creino opportunità di crescita, coesione, competitività, innovazione e scambio, in particolare per le piccole e medie imprese; un’Unione che promuova una crescita sostenuta e sostenibile attraverso gli investimenti e le riforme strutturali e che si adoperi per il completamento dell’Unione economica e monetaria; un’Unione in cui le economie convergano; in cui l’energia sia sicura e conveniente e l’ambiente pulito e protetto”. Insomma, di tutto e di più verso magnifiche sorti e progressive. Ma quel che tocca il nostro nervo scoperto è la “moneta stabile e ancora più forte”.

Il convitato di pietra in Campidoglio si chiamava debito pubblico e tra i busti dei grandi di Roma antica s’aggirava il prosaico fantasma della prossima manovra di politica fiscale. Con una certa perfidia lo ha ricordato Pierre Moscovici nell’intervista pubblicata da Repubblica la quale rivela anche una ricaduta della dichiarazione di Roma. Di qui a maggio verrà presentato un “ambizioso documento” con proposte concrete che riguardano una delle velocità dell’Unione, quella economica e monetaria. Si parla di “un ministro delle Finanze comune, che sia Commissario europeo e Presidente dell’Eurogruppo… uno strumento di monitoraggio e d’intervento”. Immaginiamo che una proposta del genere sia tale da suscitare più dissensi che consensi nell’attuale clima politico italiano. In ogni caso, l’atteggiamento migliore è parlarne apertamente, aprire una vera discussione pubblica, in Parlamento e fuori, avere un mandato esplicito su quel che dobbiamo fare per non restare fuori dal pacchetto di testa e quel che abbiamo il diritto di chiedere.

Non è chiaro, per esempio, se il richiamo all’Europa sociale, alla crescita e agli investimenti apra davvero la strada a politiche economiche coordinate che abbiano come obiettivo l’espansione non solo la stabilità. Qui si riapre la vexata quaestio sul mercantilismo della Germania, dell’Olanda o di altri paesi del Nord e sullo squilibrio in qualche modo forzato al quale sono condannati i paesi del sud privi delle risorse per uscire dalla stagnazione. Anziché perdersi in polemiche sterili tra formiche e cicale, una ripartenza dell’Ue deve mettere al centro uno scambio “equo e solidale” tra eguali. Solo così quella firmata a Roma non sarà un’altra dichiarazione nel deserto.