“E adesso, Goldfinger, comincia a perdere”: chi non se la ricorda, la battuta-cult di “007, Operazione Goldfinger” che pronuncia Sean Connery, giovanissimo e indimenticabile James Bond, quando finalmente, spiando col binocolo dall’alto il “cattivone” del film, ne coglie e ne smaschera il raffinato sistema che adottava per barare al gioco? Ecco, c’è da augurarsi che il tardivo risveglio -anche i bradipi ogni tanto si riscuotono! – di Tim, Vodafone e WindTre contro lo strapotere di Google, Facebook e Amazon abbia lo stesso effetto – devastante – che ebbe la mossa di 007. 



Cos’è successo? Qualcosa di minuscolo eppure, in sé, epocale. Una specie di “area test” che i tre colossi della telefonia hanno tentato in Italia. E che se andasse bene potrebbe diventare uno standard mondiale. E potrebbe arginare – se non sgretolare, come meriterebbe – lo strapotere oligopolistico che i tre moloch del web hanno conquistato sulle nostre vite e sulle nostre tasche, incontrastati da parte di coloro, appunto gli operatori telefonici, che avrebbero dovuto e potuto tenere a bada il loro insaziabile appetito di quattrini. E cioè: in una lettera a tre firme spedita al Senato, Tim, Vodafone e WindTre intervengono a gamba tesa nel dibattito sul disegno di legge sulla web tax. Iniziativa sollecitatagli peraltro meritoriamente da Palazzo Madama, ma non da una madama qualsiasi bensì dal presidente della commissione Industria, Massimo Mucchetti, già vicedirettore del Corriere della Sera e bravo giornalista economico, che di questi temi capisce, evidentemente, più degli operatori telefonici.



Svegliandosi da un letargo ventennale, i tre big del telefono rilevano che l’ingresso nel settore delle telecomunicazioni dei cosiddetti “over the top” (sopra il tetto, letteralmente: cioè aziende che utilizzano strutture non proprie), cioè appunto Facebook, Google e Amazon, ha “modificato gli equilibri del mercato”. Evviva, ben svegliati, eh? In realtà, i telefonici – in tutto il mondo – stanno facendo come i monaci di Santa Chiara: che dopo il furto, misero le porte di ferro. Negli ultimi quindici-vent’anni, la loro categoria ha veramente venduto la primogenitura per un piatto di lenticchie. Ha clamorosamente sottovalutato la forza di Internet, dopo lo scoppio della “bolla” della new-economy, confondendo quella che fu una crisi di crescita con un tramonto definitivo. E si sono fatti disastrosamente bagnare il naso da Google e compagni, che non solo sfruttano le loro reti pagando due lire (le lenticchie) per farvi transitare i loro diluviali e mega-ciclopici quantitativi di dati, ma non si preoccupano minimamente di manutenerle e rivendono a caro prezzo – in denaro o sotto forma di pubblicità inflitta a centinaia di milioni di utenti ormai del tutto rincoglioniti dai banner e dagli interstitial e da ogni sorta di comunicazione invasiva – gli stessi servizi che in teoria dovrebbero offrire le telco!



Com’è stato possibile? Semplice: per l’insipienza e la boria tracotante di una generazione di manager normali, quando non mediocri, che si sono trovati a cavalcioni di una palla di cannone, come il Barone di Munchausen – quella del boom della telefonia mobile – sparata a tutta velocità senza alcun merito neanche previsionale da parte loro dalla tecnologia e dal costume. Facevano soldi a palate, appena lanciavano sul mercato un nuovo servizio o un nuovo telefonino venivano subissati di ordinativi, dovevano rivedere i budget al rialzo ogni due mesi, non credevano ai loro occhi, si consideravano divinità, e non si accorgevano che intanto, dietro di loro, cresceva un sottobosco di aziende “ott” pronte a mangiarseli. Oggi la capitalizzazione borsistica della sola Alphabet, la holding di Google, vale il doppio di quella di At&t, la più grande telco americana… e il mercato scommette sulla prima, non sulla seconda, per il futuro…

Peraltro, Google e le sue sorelle – ed è questo l’aspetto che incrocia il dibattito legislativo non solo italiano sulla web-tax – dotate di una protervia senza precedenti nella storia dell’economia mondiale, esagerano: avvalendosi anche, si legge nella lettera, di un “vantaggio competitivo legato anzitutto alla extraterritorialità (spesso si tratta di legal entity americane) e di un assetto di regole più snello che lascia loro maggiori margini di manovra sia in termini fiscali sia di regolamentazione e privacy” pagano pochissime tasse, e lo fanno soltanto dove pare e piace a loro. Invece le telco sono tartassate (si fa per dire: comunque hanno in media un 40% di ebitda, che è un livello da sogno per le aziende manifatturiere, quelle serie, che impiegano ancora centinaia di migliaia di persone e giovano all’economia reale). 

Tim, Vodafone e WindTre attaccano, finalmente, le Ott su tutti i fronti: “Sfruttano le infrastrutture delle telco per fornire i propri servizi, contenuti e applicazioni”, lamentano nella lettera al Senato. E denunciano che erogano le loro attività “ai consumatori senza investimenti infrastrutturali per la manutenzione e lo sviluppo della rete e senza alcun onere legato al pagamento delle licenze”.

In un mondo normale, le un tempo fortissime telco avrebbero capito il fenomeno nascente del Web e se lo sarebbero pappato: inglobando le varie Google e Facebook quando erano ancora piccole e abbordabili. Invece, ai tempi, dormivano, come obnubilate dalla pesante digestione degli utili enormi che macinavano senza meriti a quei tempi.

Fin qui il valore storico della lettera al Senato italiano. Ma è fin troppo evidente che a quei moloch che dagli Stati Uniti dominano il mondo, la letterina italiana, in sé e per sé, non fa neanche il solletico. È però, e comunque, un fenomeno interessante, perché se almeno un Paese importante come l’Italia iniziasse a stangare come meritano gli Ott, forse il buon esempio si diffonderebbe nel mondo. Parliamoci chiaro e ripetiamolo: l’Italia in sé vale solo come allenamento. La partita vera si giocherà negli Usa dove Google & c. avevano messo sotto tutela la Casa Bianca di Obama – con duecento udienze private a Washington solo nel 2016! – spadroneggiando oltre ogni pudore. Potrebbe darsi – ma non si capisce ancora – che Trump finalmente si renda conto che è ora di riprendere in mano il pallino della persuasione occulta, di cui invece oggi questi bestioni della Rete sono ormai i monopolisti: basti pensare al delirante manifesto delle banalità con cui Mark Zuckember, il fondatore-scippatore dell’idea di Facebook dai gemelli Cameron e Tyler Winklevoss, ha precostituito la sua prossima candidatura alla Presidenza degli Stati Uniti, e quindi del mondo. Potrebbe darsi: ma non è detto, perché il biondone di Washington forse preferirà accordarsi con i big anziché contrastarli. Vedremo.

Certo è che il troppo stroppia, e la società americana già molte volte nella sua storia ha dimostrato di avere degli anticorpi di insospettabile efficacia che ogni tanto, svegliandosi anche loro da lunghi letarghi come è accaduto alle telco, saltano su e raddrizzano le code: quando alla fine degli anni Ottanta, gli Usa fecero otto pezzi dell’allora strapotente At&t, essa era appunto forte quanto oggi Google, eppure non ottenne mercé. La novità rispetto ad allora è che nessuno sa bene come spezzettare Google, visto che il suo potere è immateriale: ma basta chiedere informazioni ai cinesi – ai quali peraltro Google concede qualsiasi cosa pur di esistere anche su quel mercato, dominato da gruppi di regime – su come si possono tagliare le unghie anche ai boss della Silicon Valley.

Perché tanto accanimento in quest’analisi? Perché lo strapotere degli Ott, oggi, rappresenta una minaccia epocale per la democrazia politica ed economica. Mai prima d’ora così pochi soggetti avevano avuto tanto potere sui nostri gusti, sulle nostre opinioni e sulle nostre tasche. È una dittatura mentale senza precedenti. Prima si interviene, meglio è: e forse è già troppo tardi. Che l’Italia rompa il tabù?