“Banche impopolari” (Mondadori, 2017) è appena uscito in libreria per la firma di Andrea Greco e Franco Vanni, due inviati speciali di “Repubblica”. E’ più di un instant book, che racconta in presa diretta le origini vicine e lontane del cuore della crisi bancaria italiana, che sta conoscendo proprio in questi giorni una svolta decisiva. Le Banche Popolari radicate nella tradizione del credito cooperativo europeo fin dal diciannovesimo secolo,  si confrontano negli ultimi vent’anni con la globalizzaione finanziaria con esiti alterni: lasciando comunque sul campo centiania di migliaia di risparmiatori traditi. Nel libro di Greco e Vanni non manca nessun nome e nessuna data. Pubblichiamo di seguito un brano dell’introduzione.



Se è la Storia che scrive i libri, questo libro la Storia avrebbe dovuto scriverlo nel 1998, dopo che era stato approvato il riordino dell’antica legge bancaria del 1936 per recepire le nuove tendenze liberiste e reintrodurre la «banca universale », abilitata a svolgere tutti i mestieri del credito (la crisi nata dal crac di Lehman Brothers nel 2008 ha mostrato con quali benefici effetti). Tra i tanti provvedimenti che hanno accompagnato quella riforma, avviata cinque anni prima dalla Commissione Draghi, era prevista la trasformazione in società per azioni per quelle banche popolari che intendessero quotarsi in Borsa. Una clausola di buonsenso finanziario, per consentire a chi – tramite il mercato dei capitali – volesse investirvi quattrini la commisurata rappresentanza nella compagine azionaria e nel governo di quegli istituti. Ma quella bozza del Testo unico bancario fu impallinata poco dopo in Parlamento, per il voto contrario di tutte le forze dell’arco costituzionale: dall’estrema destra all’ultrasinistra. È l’episodio che sei mesi fa, nei toni duri della campagna per il referendum sulla Costituzione del dicembre 2016, ha fatto parlare il sottosegretario alla presidenza del consiglio Luca Lotti di «vittime della mala gestione delle banche venete, frutto di una mancata riforma delle popolari che nel 1998 fu preparata da Ciampi e Draghi ma non realizzata dal governo D’Alema. E che è stata realizzata diciassette anni dopo dal governo Renzi».



Nel frattempo una decina di banche popolari si sono quotate a Piazza Affari, senza rinunciare al principio statutario «una testa, un voto», che è un po’ l’opposto delle società capitalistiche rette dal criterio «un’azione, un voto». E all’ombra di questa ambivalenza che garantiva una doppia natura alle popolari quotate (ma anche alle non quotate, comunque sempre più spinte verso il mercato per la raccolta di capitali e di liquidità) è cresciuto un mondo pieno di distorsioni nel governare gli istituti e gestirne i crediti; in certi casi, come quelli di Banca Etruria, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, ci sono state gravi crisi societarie che hanno provocato seri danni all’economia italiana, turbolenze a Piazza Affari e perdite miliardarie per i soci-investitori e obbligazionisti (la direttiva europea Brrd sulla risoluzione delle crisi bancarie dal gennaio 2016 include i sottoscrittori di bond subordinati e i correntisti con giacenze oltre i 100.000 euro tra chi, insieme agli azionisti, deve accollarsi la prima perdita delle banche in crisi).



L’ex Popolare di Arezzo, tra i più severi casi di depauperamento patrimoniale che la vigilanza ricordi, è stata salvata due volte: prima dagli operatori concorrenti, poi da Ubi, che ne ha raccolto le spoglie col cucchiaino. Quanto ai due istituti veneti, che hanno tentato e fallito l’assalto al cielo con le operazioni baciate al di fuori di ogni prassi e regola gestionale, per tenerli in vita e cercare di fonderli in uno sono serviti i miliardi dei concorrenti, oltre a quelli dei contribuenti. C’è scappato anche il morto in Veneto, la regione più colpita dalla crisi bancaria ormai in pieno atto. In altri casi, e in vario grado, le banche locali hanno perseguito mire di grandezza effimere o dannose, prestato i soldi dei clienti in modi erronei o con logiche clientelari, tenuto alti costi e stipendi e distribuito meno utili di quel che avrebbero potuto.