Ho la pressoché certezza che i quotidiani di oggi non si occuperanno in prima pagina di Russia o di Vladimir Putin (datemi però il beneficio del dubbio notturno, ovvero il fatto che può sempre accadere qualcosa di importante nottetempo, quando questo articolo sarà già stato composto per essere pubblicato, mentre i quotidiani hanno la possibilità della ribattuta) e per una ragione chiara: ieri a Mosca è successo qualcosa di serio, quindi meglio tacere e attendere la prossima violazione della legge sulle manifestazioni non autorizzate (presente pressoché ovunque e che contempla pene amministrative e detentive) per sparare titoli a otto colonne. Ieri dal Cremlino è arrivata infatti una notizia che potrebbe, anche in tempi relativamente brevi, cambiare gli scenari geopolitici e geofinanziari in atto: la Russia potrà infatti usare le basi militari dell’Iran per missioni contro i terroristi in Siria, anche se questo uso «sarà valutato caso per caso, prima di prendere una decisione». Lo ha dichiarato il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, riportato dall’emittente PressTv. 



Zarif in questi giorni è a Mosca proprio per accompagnare il presidente Hassan Rohani nella visita ufficiale nella capitale russa. Il perché dell’importanza di questa notizia è presto detto. Primo, nelle ultime settimane gli Usa hanno rinforzato la loro presenza militare proprio in Siria, quasi a volersi garantire un duplice effetto: mantenere la cortina fumogena di collaborazione con la Russia contro Daesh e, al tempo stesso, evitare l’egemonia totale di Mosca nell’area. Secondo, non è affatto un mistero che l’amministrazione Trump veda come il fumo negli occhi l’accordo nucleare iraniano, tanto che alcuni generali dell’esercito, nel corso di audizioni al Congresso, hanno dichiarato chiaramente che la sconfitta di Daesh in Siria non sarà certo la fine del problema, visto che rimane il nodo del principale finanziatore del terrorismo al mondo. Ovvero, agli occhi di Washington, l’Iran, oltretutto uno dei due pilastri su cui si regge la resistenza al potere a Damasco di Bashar al-Assad, oltre il Cremlino. 



Terzo, nel budget la Casa Bianca, a fronte di tagli draconiano alle spese sociali, ha stanziato 54 miliardi di dollari per il Pentagono, sintomo che il moltiplicatore keynesiano del Pil per eccellenza, il warfare bellico, rimane una priorità del complesso industriale che è la vera colonna vertebrale dell’economia Usa. Quarto, è di lunedì l’annuncio da parte della Casa Bianca della possibile espansione del suo coinvolgimento nella campagna in Yemen dell’alleato saudita, il tutto – formalmente – per stroncare l’insurrezione dei ribelli sciiti Houthi, legati più o meno direttamente all’Iran e, soprattutto, estremamente filo-russo, tanto da offrire anch’essi l’utilizzo delle basi aeree a Mosca per le sue operazioni anti-terrorismo. 



Guarda caso, con Rohuani a Mosca, è giunta proprio ieri la notizia che la difesa aerea saudita ha intercettato quattro missili balistici lanciati dai miliziani ribelli dal nord dello Yemen. L’obiettivo dei ribelli yemeniti era la città saudita di Abha, nella provincia di Khamis Mashit, nella parte meridionale dell’Arabia Saudita: l’attacco non ha provocato feriti o danni materiali. Stando all’emittente televisiva al Arabya, i quattro missili sono entrati nello spazio aereo saudita alle 7 del mattino ora locale, quando sono stati subito intercettati dalla difesa aerea saudita. Subito dopo i caccia della Coalizione araba impegnata nel conflitto yemenita sono intervenuti e hanno distrutto le rampe di lancio dei razzi, nonostante i miliziani sciiti abbiano tentato di nasconderle in una caverna della zona montuosa del nord dello Yemen. Stando alla Coalizione, i quattro missili balistici lanciati contro le città saudite di confine sono stati contrabbandati in Yemen tramite il porto di al Hodeidah, ancora in mano ai ribelli sciiti. E, sempre guarda caso, questo porterebbe con sé una conferma a quanto la Coalizione denuncia da tempo: ovvero, il fatto che l’Iran contrabbandi armi e missili verso lo Yemen via mare, tramite il porto di al Hodeidah. Non vi pare il più classico e perfetto dei casus belli

E a darci un’indiretta conferma del fatto che il conto alla rovescia per un conflitto proxy tra Usa e Arabia Saudita da una parte (con Israele pronto a colpire al fianco degli alleati, puntando sulle posizioni Hezbollan in Siria e Libano) e Russia e Iran dall’altro forse sia già partito è la mossa di smarcamento, che annovera pochi precedenti, compiuta ieri da Amnesty International, la quale ha denunciato pubblicamente come i trasferimenti multimiliardari di armi all’Arabia Saudita da parte di Usa e Regno Unito non solo alimentano le gravi violazioni dei diritti umani della popolazione civile dello Yemen, ma superano di gran lunga in valore il loro contributo alle operazioni umanitarie nel Paese sconvolto da due anni di conflitto. Per l’organizzazione umanitaria, dal marzo 2015 Washington e Londra hanno trasferito armi per oltre 5 miliardi di dollari all’Arabia Saudita, capofila della coalizione militare impegnata nello Yemen: oltre 10 volte i 450 milioni di dollari che i due Paesi hanno speso o messo in bilancio per gli aiuti umanitari alla popolazione civile yemenita. 

«Due anni di conflitto hanno costretto tre milioni di persone a lasciare le loro case, hanno distrutto la vita di migliaia di civili e provocato un disastro umanitario, che vede oggi oltre 18 milioni di persone dipendere disperatamente dagli aiuti umanitari – ha dichiarato Lynn Maalouf, vicedirettrice delle ricerche presso l’ufficio regionale di Amnesty International a Beirut -. Nonostante i milioni di dollari destinati all’assistenza umanitaria, molti Paesi stanno contribuendo alla sofferenza della popolazione civile continuando a vendere all’Arabia Saudita armi per un valore di miliardi di dollari». E nonostante il silenzio dei media, parliamo di un conflitto che da quando sono iniziati gli attacchi aerei da parte della coalizione guidata dall’Arabia Saudita, ha visto uccidere almeno 4600 civili e ferirne più di 8mila. Il tutto, con gli Stati della Coalizione hanno anche usato armi vietate a livello internazionale – come le bombe a grappolo prodotte negli Usa, nel Regno Unito e in Brasile – nelle province di Sa’da, Hajjah e Sana’a. 

Una cosa è certa: se Amnesty, dopo mesi e mesi di denunce quantomeno in pantofole e con il silenziatore, esce alla scoperto con accuse così dirette e gravi è perché sa che il bubbone sta per esplodere e, visti gli stretti rapporti con il Regno Unito, appare intelligente marcare le distanze in quella che presto potrebbe diventare una battaglia mediatica – e non solo – di accuse incrociate ai massimi livelli. Ma lo Yemen, uno dei Paesi più poveri al mondo, perché è così strategico? Per due ragioni, la prima sta nel fatto che a combattere contro i sauditi siano ribelli sciiti filo-iraniani, sintomo che Teheran punta a penetrare nell’area che Ryad vede unicamente come propria zona di competenza, quantomeno per destabilizzare. Secondo, lo Yemen ospita lo stretto di Bab el Mandeb, uno dei principali hotspot mondiali, collegamento tra l’Oceano Indiano e il Mar Mediterraneo attraverso il Mar Rosso e il Canale di Suez: dei 43 milioni di barili di petrolio che transitano quotidianamente al mondo, 3,3 passano da qui, oltre a un volume enorme di altre merci. 

Di più, dall’altra parte dello stretto c’è il Dijbouti, Stato africano strategico per la lotta al terrorismo e dove gli Stati Uniti hanno una base militare di enorme importanza, Camp Lemonnier: peccato che la Cina stia tentando con ogni sforzo di ottenere dal governo locale la possibilità di aprire essa stessa una base militare in loco, la prima di Pechino in Africa, continente che ormai da anni sta vivendo un enorme espansionismo economico e geostrategico del Dragone. Insomma, troppo rischioso lasciare che Mosca mette anche soltanto un mignolo in quell’area così fondamentale attraverso l’alleato iraniano: se Washington, su enorme pressione del Pentagono, sta per intervenire, è per chiudere la partita in tempi rapidi, costi quel che costi. Macerie e morti innocenti inclusi, visto che occorre garantire e assicurare il totale controllo saudita dell’area. 

Donald Trump non aveva promesso minor interventismo in politica estera in campagna elettorale? Certo, peccato che arrivati a Pennsylvaia Avenue ci si renda conto chi comandi davvero in America: quei 54 miliardi stanziamenti al Pentagono, parlano chiaro. Su due fronti: primo, le guerre sono tutt’altro che finite, anzi una sta per cominciare proprio ora. Secondo, uno stimolo del warfare simile significa che gli Usa non solo sono a rischio di un imminente crisi finanziaria, ma anche di una nuova recessione, al netto delle promesse espansioniste del tycoon. Lasciate stare il Dow Jones, se volete capire l’economia mondiale guardate dove piovono le bombe.