Ieri è stato il “B day”, ovvero il giorno in cui l’ambasciatore britannico ha consegnato alle autorità europee l’atto formale con cui la Gran Bretagna attivava l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, dando vita ufficialmente con la firma del premier, Theresa May, al percorso che porterà Londra verso il Brexit. Non so come andrà a finire, troppi gli ostacoli e le variabili e, in tutta serenità, posso dirvi che proprio per questo non ho alcuna riflessione intelligente sul tema da proporvi: non so se il Regno Unito pagherà cara questa sua decisione o sarà la sua fortuna e temo che chi ha troppe certezze al riguardo, sia passibile di errore clamoroso. Ma voglio restare in ambito britannico e parlarvi di un concetto che è molto poco pragmatico, ma molto sentito nella cultura di quei popoli, una baluardo di quel saper sempre mettere le cose in prospettiva e affrontare la realtà per quella che è: si tratta del last hurrah, ovvero quel moto spontaneo che, di fronte a una situazione ormai irreparabile in maniera ordinaria, ti spinge a godertela fino all’ultimo, ben sapendo che da domani sarà dura ripartire. Non un mettere la testa sotto la sabbia, ma una sorta di rituale ben augurante in vista della fatica improba che inevitabilmente si parerà lungo il cammino. 



Bene, attraversando idealmente due oceani, a Ovest e ad Est, questo atteggiamento pare quello maggiormente dominante sui mercati, non esattamente un sintomo di equilibrio e sostenibilità reali. Lunedì il Conference Board statunitense ha pubblicato il dato dello US Consumer Confidence, il grado di fiducia degli investitori statunitensi, e la lettura ha superato qualsiasi aspettativa, salendo ai massimi dal 2000. Gli analisti ritengono questo dato una continuazione della recente spaccatura partisan del Paese, con i repubblicani fiduciosi sull’attuale stato di salute dell’economia e i democratici che prevedono un imminente collasso. Una conferma di questo ci ha dato dal recente report dell’Università del Michigan: «La componente Current Economic Conditions è ai massimi dal 2000, soprattutto grazie a un miglioramento del dato delle finanze personali. Mentre le attuali condizioni economiche non sono influenzate dal dato partisan rispetto all’appartenenza politica, questo non è vero per la componente riguardante le prospettive future dell’economia: tra i democratici, l’indice dell’aspettativa a 55.3 segnala che una profonda recessione è imminente, mentre il 122.4 dei repubblicani indica un’era di robusta crescita economica davanti a noi». Insomma, addio fondamentali, una larga parte del dibattito economico in corso negli Usa è basata unicamente su aspettative legate ad appartenenza politica, quasi un dato ideologico: qualcosa di folle per il solitamente pragmatico modo di pensare anglosassone.



Ma se il dato di aspettativa economica su base generale è influenzato da un insieme di fattori, il quadro diventa più chiaro quando si va a valutare lo stato d’animo degli americani nei confronti del mercato azionario, perché come ci mostra questo grafico, Oltreoceano non sono mai stati così ottimisti rispetto a Wall Street dall’inizio del 2000. Più del 47% degli interpellati ha detto che i titoli azionari si muoveranno al rialzo nei prossimi 12 mesi, un aumento di circa il 50% rispetto alle più recenti letture del dato, di fatto un dato quasi unicamente imputabile ai cosiddetti animal spirits scatenati dall’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca e alle sue promesse di politica economica. 

Peccato che il grafico ci dica anche altro: per l’esattezza che la lettura dell’altro giorno è sì la maggiore dal gennaio 2000, quando l’ottimismo rispetto al mercato azionario visse un picco, ma questo non deve per forza farci festeggiare, visto che due mesi dopo, nel marzo 2000, esplose la bolla dot-com e in meno di un anno il mercato dei titoli di trovò in pieno bear market. Temo che, al netto di quanto si possa in piena coscienza credere a uno come Trump in fatto di economia, siamo di fronte a un chiaro caso di last hurrah di buona parte della cittadinanza statunitense: l’economia reale, d’altronde, parla chiaro e le dinamiche salariali cominciano a patire in maniera strutturale dell’aumento dell’inflazione legato proprio al Trumpnomics. Unite a questo il fatto che la strada per la riforma fiscale ora appare in piena salita e, con 20 triliardi di debito, l’America perde ogni anno denaro senza che si veda la luce in fondo al tunnel: lo stesso Wall Street Journal che ieri sottolineava per l’ennesima volta come l’Italia fosse la vera bomba innescata nel cuore dell’eurozona, faceva notare poche pagine più in là che manager e azionisti di grandi aziende Usa, ovvero chi conosce davvero i conti e lo stato di salute, stiano vendendo in loro titoli azionari come se non ci fosse un domani. 

Ma c’è di più, visto che la stessa Morgan Stanley parla di una “devastante divergenza tra i dati economici”, dato che «la lettura delle sorprese al rialzo pare mossa unicamente da soft data, un qualcosa che dovrebbe non farci attendere un rimbalzo verso l’alto degli hard data, quelli che contano davvero». Eppure il mercato non crolla, Wall Street è entrata in striscia negativa, ma sulle prime pagine non emergono allarmi legati alle Borse: è il last hurrah, sul Titanic c’è ancora musica e si balla come tarantolati per non pensare troppo al domani. Che, comunque, arriverà. E lo farà anche a Oriente, dove investitori tenuti a dieta per mesi e mesi da tassi di interessi ridicoli che garantivano rendimenti altrettanto ridicoli, paiono aver rotto gli indugi, tolto i risparmi dal futon ed essersi lanciati in investimenti legati a securities potenzialmente molto rischiose: anche qui, last hurrah

A fronte di investimenti incapaci di rendere, gli investitori reatil nipponici hanno infatti garantito un rally ai bonds legati al Nikkei 225 Stock Avarage, portando le loro vendite al massimo da tre anni nel mese di gennaio, come conferma Societe Generale e come ci mostra questo grafico. Qual è il problema? Duplice. Primo, si tratta appunto di investitori retail, non professionali, quindi gente potenzialmente a rischio di restare con il cerino in mano. Secondo, queste securities non sono così innocue da gestire. Si tratta infatti delle cosiddette uridashi notes, le stesse che a metà del 2015 si schiantarono del 24%, quando i bassi prezzi energetici e i timori che la Cina innescasse un trend ribassista e di avversione al rischio mandò i mercati in ritracciamento. 

Questi strumenti, infatti, pagano se l’indice azionario sale al di sopra di un livello prestabilito in determinati giorni: e cosa è accaduto? Il Nikkei 225 è salito ai massimi da 17 anni in termini legati al dollaro dopo l’elezione di Donald Trump, di fatto facendo scattare redemption anticipate su quei bond legati all’indice e innescando un roll-over di quel denaro verso nuove emissioni delle stesse securities: il giochino ha fatto ingolosire l’investitore retail tipo giapponese, la mitologica Mrs. Watanabe, la quale ora continua a scommettere, quasi l’incantesimo fosse destinato a non finire mai. Con un aumento del livello spot dell’indice del 16% nel quarto trimestre del 2016, appare normale che si sia operato un knock-out su una porzione notevole di quei prodotti strutturati entro la fine dell’anno, il problema è che si continua a rientrare attraverso nuove emissioni: ecco salire il dato generale delle vendite di bonds, peccato che si tratti di derivati strutturati e non di relativamente innocui Bot o Btp. Anche perché pur di vendere, è tornata sul mercato la vena creativa, visto che la proporzione di emissioni cosiddette worst-of-basket è salita al 35% nell’ultimo anno dal 17% della prima metà del 2014, di fatto offrendo un ulteriore driver alla vendita di uridashi notes a investitori che, molto spesso, non sanno cosa si ritrovano per le mani (e in portafoglio). 

Le worst-of-securities sono prodotti che basano il loro payout dell’investimento sul ritorno più basso di un paniere tipicamente composto da due o tre indici e, pur essendo prodotti per professionisti, stanno diventando molto popolari, visto che gli emittenti hanno un’unica priorità: strutturare prodotti con un rendimento più alto, al fine di ingolosire gli investitori meno attenti e preparati. E proprio per la loro natura rischiosa, questi prodotti strutturati sono finiti più di una volta sotto la lente d’ingrandimento dei regolatori. In Corea del Sud, Paese che divide proprio con il Giappone la parte sostanziale del mercato asiatico per questo tipo di securities, la regolamentazione sul loro utilizzo/detenzione è stato pesantemente rivista dopo che nel 2015 il tonfo del mercato azionario cinese vide molti investitori perdere parte sostanziale del capitale in obbligazioni strutturate legate all’azionario del Dragone. Unite a questo la volatilità del mercato generale, aggravata dalla rincorsa dei dealers a una copertura hedge per le obbligazioni che avevano emesso e un bello scenario da panic selling è servito. E sapete attualmente quali sono i prodotti strutturati di questo genere più venduti? Quelli sull’Euro Stoxx 50, i quali rappresentano il 50-60% del totale delle cosiddette equity-linked notes, obbligazioni legate ai trend dei mercati azionari. 

Attenzione, perché come vi ripeto, queste non sono obbligazioni normali e le variazioni di prezzo per un 1% di cambiamento della volatilità nell’asset sottostante può portare alla rovina chi non sa come gestire certe situazioni (o come prevederle, visto che media, politici e consulenti prospettano solo cieli azzurri all’orizzonte). Certo, sono solo quote di mercato, ma attenzione, perché quando si comincia giocare pesante con l’investitore retail significa che di ciccia vicino all’osso ne è rimasta poca: alla fine, anche le cartolarizzazioni legate ai mutui subprime parevano innocue. Abbiamo visto com’è andata a finire.