Ieri l’altro l’ambasciatore britannico a Bruxelles ha consegnato alla Commissione europea la lettera con cui il Premier Theresa May ha attivato l’articolo 50 del Trattato di Lisbona e ha dato così formalmente avvio alla Brexit: il Regno Unito inizia le negoziazioni per lasciare l’Unione europea. Sin da quando gli elettori decisero in tal senso, la comunità economica internazionale, dagli intermediari finanziari (banche e società finanziarie) alle società di servizi e alle grandi industrie manifatturiere, iniziarono le grandi manovre. Prima per comprendere l’esatta rilevanza economica dell’evento e, in seguito, per arginarne le conseguenze più gravi dovute a un inasprimento della regolazione amministrativa sulle attività economiche con conseguente gravame burocratico e, soprattutto, a un attacco all’integrità dei singoli mercati, sotto la forma della creazione di ostacoli non necessari alle transazioni commerciali, creando barriere e dazi e standard in grado di aumentare il costo delle transazioni di qualsivoglia natura.
La recente dichiarazione della signora May, la quale ha affermato che “No deal is better that a bad deal” ha scatenato una valanga di timori e di apprensioni tra le cuspidi del potere economico delle diverse nazioni europee e internazionali. Il potentissimo Keidanren giapponese (la Confindustria del Sol Levante), così come Business Europe (la Confindustria europea), e tutte le altre confederazioni industriali nazionali europee, dal Medef francese, al Bdi tedesco, al Cbi del Regno Unito, sino al Lewiatan polacco, hanno insistito su una comune linea di pressione, di lobby, così dichiarando: “Si negozi, ma con la massima considerazione per le conseguenze economiche di tali negoziazioni, ponendo la massima cura al mantenimento delle libertà di esportazione e di organizzazione aziendale multinazionale”.
Ma è proprio questo il contenzioso che oggi si apre in Europa. A partire dalla negoziazione del dare e dell’avere dei contributi europei. Secondo calcoli non ancora confermati e accettati dalle parti, in base alla partita doppia del dare e dell’avere, ossia delle quote versate al bilancio comune europeo e ciò che si è ottenuto dalla pioggia di contributi che da quel bilancio giunge alle singole nazioni in base all’infinità di contributi e finanziamenti che le varie sezioni dell’Ue erogano sulla base di programmi e convenzioni più varie, il Regno Unito dovrebbe “rendere” all’Ue una somma che ammonta a circa 60 miliardi di euro. La tecnocrazia europea si appresta a richiederli sulla base di riscontri di poste di bilancio e di accordi pregressi.
Sono un paio di manovre finanziarie che sarebbero, invece, oltremodo necessarie a un Regno Unito che sta intraprendendo una grande e rischiosa avventura. Ma deve farlo pagando i suoi debiti europei, dicono i più, ed è difficile dar torto ai sostenitori di questa tesi, soprattutto nella carenza di fondi imposta dalla politica economica dominate ancora oggi in Europa, nonostante gli sforzi controcorrente della Bce, che vorrebbe, com’è noto, una politica più espansiva dal punto di vista fiscale e monetario.
Bene: dato per certo che i governi britannici troveranno i fondi per ripagare questo debito “europeo”, grazie al fatto che la sterlina è rimasta intangibile e sovrana e che quindi il governo di Sua Maestà non ha ceduto a nessuno il controllo della sua regalità imperiale, il problema della Brexit non è certo finito, ma per certi versi altro non è che solo iniziato. Volete aver sentore di ciò di cui veramente si tratta? Rileggete le pagine di ieri di due giornali importantissimi, il “The New York Times” e il ” Financial Times” . Vi troverete due articoli che sostengono due tesi contrapposte, ma che bene illustrano la partita in gioco. Sulla prima pagina del giornale Usa spicca l’editoriale di Alan Johnson, senior research fellow del British Israel Communications and Research Center, significativamente intitolato: “Why Brexit” is essential for British”. Il titolo è tutto un programma e parla da sé: l’unica salvezza per una grande nazione come il Regno Unito, secondo Johnson, è ritornare a far parte della “anglosfera”, ossia dell’universo della common law, dei liberi mari e della democrazia rappresentativa e della piena sovranità popolare secondo la millenaria tradizione di un grande impero. Il disegno è chiaro. E per comprenderlo in tutta la sua audacia ricorriamo all’articolo del tutto contrastante apparso per la penna del mio vecchio amico Martin Wolf lo stesso giorno sul “Financial Times”. Anche in questo caso il titolo è tutto un programma e un contenuto: “Brexiters must lose if Brexiti is to succeed”. Insomma, afferma Wolf: l’economia del Regno Unito è così interconnessa con quella europea che il peso che proporzionalmente essa esercita sul complesso delle relazioni di scambio internazionale del Regno Unito non potrà mai essere sostituito dalla somma dell’aumento dei traffici con gli Usa e la Cina, così com’è, invece, nelle intenzioni e nelle previsioni dei sostenitori della Brexit.
Sono due visioni profondamente antitetiche e non conciliabili e sono entrambe alla base vera e sostanziale della Brexit. È chiaro che il successo della nuova linea di azione del Regno Unito è un radicale cambio di passo su scala mondiale di una delle nazioni che hanno fondato il concetto stesso di modernità e che hanno raggiunto i più alti gradi della civilizzazione mondiale. Si guardi alla sostanza: la Brexit è, di fatto, un ritorno agli anni Cinquanta e Sessanta del secondo dopoguerra, quando il Regno Unito non entrò nel Mec e solo nel 1973 aderì all’Unione europea, pur senza mai abbandonare la sterlina. Oggi, in un mondo profondamente mutato, lo slancio è verso la creazione di quella anglosfera che dovrà guidare il mondo, da un lato conducendo una lunga e perigliosa alleanza con la Cina e, da un altro lato, stipulando un nuovo accordo strategico con la Russia, così da condurre al definitivo ridimensionamento su scala mondiale dell’Europa a egemonia tedesca. Un mondo nuovo pieno di rischi e di immense sfide.
Oggi i popoli e i governi dell’Europa privata del Regno Unito sono scossi dalle sfide elettorali prossime e future e si affrettano a trarre dalla Brexit tutte le opportunità che il ritiro del Regno Unito dalla scena delle istituzioni europee lascia aperte. Basti pensare alla grande City di Londra, che dovrà rischedulare il suo accordo con le borse tedesca e italiana proprio in merito alla governance e agli assetti proprietari. Ma sono importanti e numerose le istituzioni che lasceranno le isole britanniche al termine dei negoziati della Brexit. Anche l’Italia è in lizza per ereditarne alcune. E non possiamo, pur nella drammaticità della vicenda, che gioirne, come spesso abbiamo fatto nella nostra storia, trovando, nelle giravolte della politica internazionale, nuove opportunità.
La verità verrà presto alla luce del sole e sarà decisa dal negoziare sulle condizione dei mercati transnazionali che sono già in corso attraverso discreti colloqui nelle segrete stanze del potere economico e politico mondiale. I fuochi sono già accesi. Trump manda a dire che presto alzerà le barriere doganali sul made in Italy e un fremito di rivolta di passione è fluito per le vene di un capitalismo tanto vitale quanto diviso come quello italico. Una questione di dimensioni mondiale come la Brexit è subito divenuta una questione di motorette e di indumenti intimi… per carità, la posta in gioco non è questa. Come sottolineano i centri della riflessione industriale e manifatturiera del Regno Unito, il nodo sarà quello dei brevetti sul farmaceutico per la lotta ai batteri, la ricerca sul laser e sulla missilistica e quindi su tutta l’informatica dello spazio, così come nella negoziazione or ora apertasi su chi lavorerà in Mesopotamia e in Magreb, ossia in ciò che rimane dell’accordo Sykes-Picot dopo la guerra di Libia e la tragedia della guerra all’Iraq e della sua distruzione.
Il Regno Unito negozierà sulla base dei trattati e degli arbitrati vigenti e da possibilmente attuare con tutti gli stati del mondo, tra cui quelli europei, con quella tranquillità imperiale che mantenne anche quando nel 1973 sotto le forti pressioni Usa decise di aderire al Mec per via della potenza nucleare cui disponeva e dispone. La ridefinizione dei confini del mondo è solo all’inizio e sfugge ai più degli italici oligarchi capitati per caso sulla cuspide del potere.
Non sfugge ahimè – ed è un vero peccato – alle potenze nordico-teutoniche che perseverano nella durezza degli atteggiamenti ordoliberisti come la povera Margrethe Vestager, che dallo scranno del suo commissariato per la concorrenza ha ceduto alle pressioni lobbistiche e ha dichiarato che il merger tra La Borsa di Londra e quella di Francoforte non si può più fare perché mancano le condizioni politiche e istituzionali per realizzarla. Insomma, la Brexit deve ancora iniziare con le negoziazioni e il blocco teutonico-nordico già impone non una regola di mercato, ma viola ogni arbitrato internazionale, ogni accordo pregresso e dice che la fusione tra le borse strategiche di Londra e Francoforte deve essere bloccata. Una prepotenza inaudita che è un vulnus per ogni regola del commercio internazionale come sancito dalla Wto e come regolato da un pila di arbitrati internazionali. È un fatto inaudito.
È da notare che dell’Italia non si fa menzione. Ossia non si fa menzione del fatto che anche la borsa di Milano dovrebbe essere coinvolta in questo diniego. Non la si nomina affatto. Un vero presagio di ciò che ci attende in futuro.