Mamma mia, Trump vuole mettere i dazi sull’acqua San Pellegrino e sulla Vespa! Questo Paese veramente non cambierà mai: ha paura della sua ombra. Anzi, ha paura del suo vassallo, non riesce proprio ad affrancarsi: basta sentir pronunciare Washington e il battito di tacchi è automatico, come la salivazione del cane di Pavlov. La San Pellegrino è italiana? Certo, nella misura in cui è italiana la Nestlé, multinazionale svizzera che ne detiene il marchio, visto che a partire da fine anni Ottanta in poi questo Paese ha svenduto a potenze estere il suo intero comparto agro-alimentare: perché prendere in giro la gente, gridando all’attacco contro l’italianità? Vogliamo parlare della Piaggio? Perfetto, il mercato Usa sapete quanto conta per il marchio di Pontedera? Il 5% del fatturato. Certo, meglio non perderlo in periodi di vacche magre, ma non penso che si andrebbe incontro all’ecatombe. Tanto più che il buon Trump, anatra zoppa come non se ne vedevano dai tempi di Jimmy Carter, gioca ad alzare la voce, berciando il suo America first, ma ha almeno un paio di problemini cui far fronte. 



Primo, mettere dazi sull’import italiano negli Usa significa mettere una tassa indiretta sui cittadini americani riguardante un interscambio totale da qualcosa come 40 miliardi: reagirà bene il Paese, al netto del già poco amore delle elites che contano verso il tycoon? Certo, il meccanico del Wyoming non mangia Parmigiano Reggiano e non veste Loro Piana, ma siamo sicuri che alzare muri commerciali convenga davvero all’America, visto che se sarà necessario – come pare – un nuovo intervento della Fed per evitare che il mercato azionario vada in testacoda, far pagare di più la San Pellegrino che bevono gli hipster nei ristoranti di Chelsea sarà l’ultima delle preoccupazioni per la Casa Bianca? La quale, dopo lo schiaffo sull’Obamacare, ora dovrà fare i conti con la riforma fiscale, per l’esattezza proprio la cosiddetta “tassazione di confine” che renderebbe più costoso per le aziende americane riportare in patria i loro prodotti per venderli. 



Insomma, Trump sul commercio sta rompendo le scatole a tutti, produttori e consumatori americani in testa: pensate davvero che gli lasceranno fare quanto minaccia? Siamo seri, per favore: aver paura di Trump è semplicemente ridicolo, visto che già oggi, a 5 mesi dalle elezioni, è completamente in balia dei poteri reali statunitensi – industria e corpi intermedi dello Stato, intelligence in testa -, quindi riportarlo a più miti consigli sarà operazione decisamente semplice. È altro che mi spaventa. In primis, questo: «Cari amici è venuto il tempo che convinciamo gli europei ad alzarsi velocemente dal divano e a darsi una mossa o i populisti arriveranno al loro obiettivo… La Brexit non è la fine di tutto. La dobbiamo rendere l’inizio di qualcosa di nuovo, più forte e migliore. Non è la fine. A molti piacerebbe che fosse così, anche a persone in altri continenti. Il nuovo presidente degli Stati Uniti è stato felice che ci fosse la Brexit, ed ha chiesto che altri Paesi facessero la stessa cosa. Se continua così promuoverò l’indipendenza dell’Ohio e di Austin Texas dagli Usa». Bene, chi ha sparato questa idiozia da bar? Esatto, uno che con i prodotti sommistrati al bar ha parecchia confidenza, Jean-Claude Juncker, capo della Commissione Ue, parlando al convegno del Ppe a Malta. 



Il problema dell’Europa non è Trump, ma i burocrati alla Juncker, gente che sta trasformando il Brexit in un caso di Stato, in una battaglia tutta ideologica quando i problemi sono altri, tutti legati a quell’eurozona di cui Londra non ha mai fatto parte. Mentre Juncker sproloquiava, infatti, veniva reso noto che l’indice di fiducia economica nei Paesi dell’eurozona è sceso a marzo a 107,9 punti dai 108 di febbraio, un dato è sotto le attese degli economisti. Più nel dettaglio, nell’area euro l’indice di fiducia delle imprese è calato a 1,2 punti da quota 1,3 di febbraio, deludendo le aspettative del consenso che avevano previsto un rialzo a 1,4 punti. Anche l’indicatore del settore servizi si è contratto a 12,7 punti da 13,9, deludendo gli economisti che si aspettavano un dato a 14 punti, mentre il dato definitivo dell’indice di fiducia dei consumatori è risultato pari a -5 punti dai -6,2 di febbraio, in linea con il dato preliminare e con il consenso degli economisti. 

Ma attenzione, perché ieri dall’Ue abbiamo scoperto anche altro. Ovvero che a marzo l’indice dei prezzi al consumo preliminare tedesco è aumentato dello 0,2% mese su mese e dell’1,6% anno su anno, un dato che ha deluso le aspettative del consenso sia su base mensile (+0,4%) che annuale (+1,8%). L’indice dei prezzi al consumo armonizzato preliminare è cresciuto dello 0,1% mese su mese e dell’1,5% anno su anno (+0,5% e +1,9%, rispettivamente, il consenso). Insomma, siamo ben al di sotto dell’obiettivo di circa il 2% previsto dalla Bce, un qualcosa che ha assestato un altro colpo all’euro dopo che mercoledì sono filtrate voci in base alle quali il Consiglio di Francoforte sarebbe orientato alla cautela sulla possibilità di modificare ulteriormente il messaggio di politica monetaria al prossimo meeting di aprile. 

C’è da piangere? No, anzi. Significa da un lato che la Bundesbank avrà argomenti in meno per cercare di far deragliare la politica espansiva della Bce, essendo l’ultimo dato la conferma del carattere transitorio della fiammata inflattiva degli ultimi due mesi, e dall’altro che Mario Draghi non ha certo intenzione di far rosolare la già stitica ripresa dell’eurozona al fuoco lento del dollaro debole. Se occorre mettere mano ai dati per fare un po’ di dumping, specialità della casa cinese ma anche statunitense, Francoforte è in grado di farlo. Lo stesso capo economista della Bce, Peter Praet, ieri ha ribadito che la ripresa e le prospettive dell’inflazione nell’area euro restano legate a doppio filo con il mantenimento dei poderosi stimoli monetari dell’Eurotower. Per questo, assieme al fatto che la risalita dell’indice generale non è accompagnata da rafforzamenti della dinamica di fondo dell’inflazione, l’istituzione ha deciso di confermare la sua linea espansionistica, inclusa la forward guidance, le indicazioni previsionali sui tassi di interesse della Bce stessa, al fine di garantire una convergenza duratura dell’inflazione verso il target del 2%. 

Trump minaccia dazi? Faccia pure, peccato che se la Bce riesce a far scoppiare il dollaro al rialzo – lavorando in combinata con Cina e Giappone -, la Casa Bianca può tranquillamente cercare fin da ora una brillante strategia alternativa. E a conferma del fatto che Draghi abbia infilato i guantoni, sfruttando anche la liability della totale incomunicabilità tra la Casa Bianca e la Fed, le solite fonti anonime interne alla Bce hanno dichiarato che, allo scorso meeting, l’indicazione che i rischi erano diminuiti è stata erroneamente interpretata come un segnale che l’atteggiamento monetario stava cambiando. Per cui, alla prossima riunione il Consiglio direttivo si asterrà dal segnalare modifiche al messaggio, preoccupato di eventuali salite dei rendimenti dei titoli di Stato. Di fatto, una secca smentita dell’allarmato e allarmante report degli analisti di Abn Amro, i quali hanno segnalato di aspettarsi che la Bce porrà fine al Qe entro giugno 2018 e non settembre 2018 come precedentemente previsto, in quanto la solida crescita dell’eurozona ha reso l’Istituto più fiducioso sul raggiungimento del target del 2% di inflazione. 

In particolare, per gli esperti olandesi la Banca centrale europea dovrebbe iniziare a ridurre gli acquisti a gennaio e dovrebbe alzare i tassi solo dopo la fine degli acquisti. Nick Kounis, head of Macro & Financial Markets research, avvertiva però che qualsiasi segnale più da falco da parte della Bce potrebbe spingere al rialzo i rendimento dei titoli di Stato dei Paesi più vulnerabili come l’Italia, innescando un effetto contagio sui mercati del reddito fisso. Detto fatto, l’Eurotower ha smentito qualsiasi scenario bearish rispetto alla sua politica monetaria, prendendo clamorosamente in contropiede la Fed e, di fatto, anche le minacce da quattro soldi di Trump e del suo team. 

Volete la riprova? Se l’Ue fosse una cosa seria e non un baraccone da avanspettacolo con a capo gente come Jean-Claude Juncker ci vorrebbe pochissimo; basterebbe far filtrare anonimamente dal prossimo vertice l’intenzione di togliere le sanzioni contro Mosca, stante il nuovo clima di collaborazione sugli accordi di Minsk. La reazione del dollaro parlerebbe da sola. E i dazi di Trump tornerebbero a far paura soltanto ai servi della gleba di Washington, quelli che non hanno il coraggio di essere europei e indipendenti veramente: salvo festeggiare i 60 anni dei Trattati di Roma.