Inosservato, non può passare. E infatti Fabrizio Palenzona, fino a pochi giorni fa vicepresidente di Unicredit “in quota” Fondazioni bancarie, è stato prontamente avvistato a Palazzo Lombardia, sede della Regione, impegnato in una visita ufficiosa ai piani alti. Con lui, gli esponenti del gruppo autostradale spagnolo Abertis, impegnati in una “campagna acquisti” di asset autostradali in Italia, cominciata alla grande con l’acquisizione di quel tratto della A4 che si chiama “Autostrada Serenissima”. 



Ebbene: gli spagnoli hanno voglia d’Italia ed hanno chiesto a Palenzona di affiancarli nella prospettazione agli “stakeholder” del mercato italiano — tra cui le Regioni – dei loro progetti. In Lombardia sono interessati alla Brebemi e alle Tangenziali di Milano. Roba di Banca Intesa e di Beniamino Gavio. Che non vendono, ma questo è un dettaglio. 



Ciò che rileva è sottolineare come l’infaticabile alto (e largo) banchiere di Unicredit non perda occasioni per esercitare tutti i suoi ruoli: quello istituzionale, di rappresentante delle Fondazioni nel consiglio dell’istituto guidato da Jean Pierre Mustier; e quello affaristico, incarnato nelle molteplici attività che Palenzona segue sia nel settore autostradale che in quello più vasto della logistica. Ruoli che fatalmente sono in conflitto anche quando le finalità possono convergere: perché chi accetta di rappresentare gli interessi di milioni di clienti e centinaia di migliaia di azionisti, come un amministratore di un colosso dell’importanza di Unicredit, non dovrebbe continuare a fare il brasseur d’affaires… Ma tant’è: la cifra del conflitto di interesse è una di quelle essenziali per comprendere il ruolo svolto da Palenzona negli ultimi 17 anni, da quando quella devastante scempiaggine che fu la riforma Amato del sistema bancario condusse anche lui, dopo altri, a rappresentare le Fondazioni nel capitale delle nostre banche, cioè la peggior politica del sottobosco locale a cassetta del credito come effetto pratico di una legge pensata col soprassella e scritta coi piedi che avrebbe dovuto estromettere i partiti dalle banche, che dunque si prefiggeva l’effetto opposto!



Così, dopo l’aumento di capitale da 13 miliardi brillantemente riuscito di Unicredit, che ha consacrato l’istituto di Piazza Gae Aulenti come una banca straniera, o meglio globale, a tutti gli effetti, visto che il 20% circa del suo azionariato stabile è costituito da fondi internazionali, Palenzona ne ha fatta un’altra delle sue. Ha agito d’anticipo, da vecchio democristiano di corrente, uno di quei salmoni capaci di risalire il corso avverso delle acque e salvare sempre la pelle. E si è dimesso: non dal consiglio — fosse matto! — ma dalla carica di vicepresidente. Contando sul fatto che se su quello scranno il nuovo assetto indurrà la nomina di qualche macaco straniero in rappresentanza dei fondi — uno di quelli che per capire l’Italia impiegano trent’anni — la sua potenza reale dentro la banca, il suo “grip” sugli alti funzionari, in una parola il suo potere, non diminuiranno di un grammo. 

E invece sì, caro Fabrizio. E non deve far piacere a nessuno: ma sia chiaro. Che Palenzona sia destinato a contare sempre meno in Unicredit è, in sé e per sé, un gran bene. Giusto promemoria, va ricordato qualche passaggio non proprio trionfale della sua lunga e trafelata carriera. Quando i magistrati milanesi bloccarono la scalata della Popolare di Lodi (all’epoca guidata dall’amico di Fiorani Palenzona), intercettato, il monumentale banchiere chiedeva all’amico: “Quante azioni hanno sequestrato i maiali?”, alludendo ai giudici. E quando Fiorani, ormai rotolato nella polvere, rivela ai pm di aver passato all’amico 2 milioni di euro su conti esteri e italiani, “Palenzona nega e non si oppone alla rogatoria sul conto Chopin presso la Banca del Gottardo di Montecarlo” — ha scritto Gianni Barbacetto. E i maiali, pardon le toghe, lente come sempre, hanno lasciato scadere nella prescrizione l’indagine.

Niente di illecito, nessuna condanna in giudicato, nessun marchio d’infamia. Eppure Palenzona è stato ed è l’highlander della prima repubblica paracadutato nella seconda, con la vecchia mimetica addosso. Un vecchio-giovane democristiano, anguillesco, pieno di sé, finto bonario. 

Si deve anche a lui e a molti come lui se le nostre banche hanno subito più delle consorelle europee il peso delle sofferenze, afflitte da quel “credito da relazioni” intessuto proprio dai mille Palenzona del sistema.

Pensare che la politica italiana abbia affidato a gente di questa risma la propria rappresentanza ai vertici delle grandi banche un tempo schiettamente pubbliche…bè, deprime. E invece bisogna star sereni, e non come Letta su invito di Renzi. Bisogna star sereni perché alla fine tutto cambia, anche i Palenzona passano. Certo, al prezzo non modico di trasferire il “pallino”.