Di qui al prossimo venerdì, quando si riunirà l’assemblea al Lingotto di Torino per “fare il tagliando a quell’idea di dieci anni fa” (così ha detto Matteo Renzi), il segretario uscente del Pd dovrà mostrare se può essere un comeback kid, come venne chiamato nel 1992 Bill Clinton perché seppe trasformare una cocente sconfitta nella vittoria finale per la Casa Bianca. Marcello Sorgi sulla Stampa consiglia di lasciar perdere il continuo battibecco polemico con Beppe Grillo per “dare il segno di un cambio di passo, di temi, di discorsi, di idee”. Renzi, in tal caso, non solo deve farsi “scivolare addosso tutti gli attacchi” e schivare l’offensiva giudiziaria che dalle oscure vicende del padre s’allunga verso di lui, ma ha bisogno di ragionare a mente fredda sullo stato d’animo del Paese.



Il sondaggio Demos pubblicato sabato scorso dalla Repubblica mostra una grande confusione sotto il cielo, tanta rabbia e insoddisfazione, un aumento del Movimento 5 Stelle nonostante i pasticci romani, un calo del Pd che diventa secondo partito, una destra divisa (anche se uniti Forza Italia, Lega Nord e Fratelli d’Italia non riuscirebbero a superare i grillini). Ma nello stesso tempo emerge una forte voglia di stabilità che rende Paolo Gentiloni in leader più gradito con il 48%. Sappiamo che i sondaggi demoscopici sono ad alto tasso di incertezza quando debbono indovinare chi vince, ma diventano più efficaci nell’individuare le tendenze e i mutamenti d’umore dell’opinione pubblica. Se così stanno le cose, il primo errore che Renzi non deve commettere è forzare i tempi di una crisi di governo.



Sorgi ha ragione nel suggerire all’ex rottamatore di ricostruire gettando uno sguardo oltre l’immediato. Finora Renzi ha dimostrato di non possedere tali qualità e proprio per questo appare molto delicata la costruzione della sua possibile risalita. La bocciatura c’è stata ed è sciocco far finta di ignorarla. Oggi ci sono le avvisaglie di un possibile cambio di stagione, di un ritorno cioè all’età della ragione dopo l’età della rabbia. La stabilità politica è salutare, in mezzo a questo confuso arrembaggio di tutti contro tutti. Purché non sia interpretata come il trionfo dello status quo.



Sembra evidente che il Presidente della Repubblica preferisca portare la legislatura al suo termine naturale. Mattarella incrocia le dita ogni giorno esercitando nel suo modo felpato la moral suasion nei tre palazzi della politica: palazzo Chigi, Montecitorio e palazzo Madama. Sta a lui sciogliere le Camere e lo farà solo se non avrà alternative. Ma affinché Gentiloni riesca a traghettare il gabinetto fino alla prossima primavera, deve mettere in cantiere alcune scelte politiche non facili.

Gli appuntamenti decisivi riguardano l’economia. La manovra per recuperare i 3,4 miliardi di euro richiesti da Bruxelles può diventare un’occasione per prendere di petto il debito pubblico anziché limitarsi a mettere insieme tagli, ritagli e frattaglie? Non si può fare molto, la crescita è debole e incerta (meno di un punto percentuale), eppure è possibile dare il segno di un cambiamento attraverso serie misure di riduzione della spesa e una strategia di privatizzazioni che non si riduca a collocare sul mercato qualche piccolo pacchetto azionario, ma affronti l’annoso bubbone delle municipalizzate e chiarisca a tutti, a cominciare naturalmente dagli italiani, quale sarà il futuro delle aziende a partecipazione statale e della Cassa depositi e prestiti diventata, bon gré mal gré, una sorta di nave ospedale.

Altro passaggio chiave riguarda le banche. Il governo Renzi qui ha commesso uno degli errori più gravi, prima sottovalutando la crisi, poi dimostrando di non avere idea su come affrontarla. Il salvataggio del Monte dei Paschi di Siena è tutt’altro che concluso e non si capisce come verrà affrontato l’intervento sulla Popolare di Vicenza. I 20 miliardi messi a disposizione dal Tesoro rischiano di essere assorbiti da una catena di difficoltà senza fine. L’incertezza sui propri risparmi continua a determinare le aspettative degli italiani. Per questo occorre una svolta, anche qui con realismo e prudenza, ma indicando una netta direzione di marcia.

Ci sono poi le riforme non finite, quelle rimaste incompiute, ma anche quelle da aggiustare, rivedere, cambiare: il mercato del lavoro, realizzando tutto ciò che serve affinché il Jobs Act sia efficace; le pensioni, sistemando tutto quel che ancora resta irrisolto dalla legge Fornero; la Pubblica amministrazione, evitando i passi indietro rispetto alla pur timida riforma Madia; la giustizia (non solo quella civile, perché è chiaro che occorre spezzare il circolo mediatico-giudiziario che rende l’amministrazione della legge uno strumento di lotta politica) e, ultima ma certo non per importanza, la governance politica.

S’è diffusa la convinzione che, una volta bocciata la riforma della Costituzione tutto possa continuare come prima, con un processo decisionale contraddittorio soffocato in una ragnatela di veti e ostacoli che impediscono di realizzare ciò che è stato faticosamente deciso. Com’era immaginabile, tutti quelli che dicevano di bocciare quella riforma sbagliata per farne una migliore, si sono rimangiati promesse che erano solo vuota propaganda. Invece, è proprio questo il momento di riaprire il dossier. È ovvio che toccherà alla prossima legislatura scegliere, ma qualsiasi forza politica responsabile candidata al governo del Paese deve già dare indicazioni sul da farsi.

C’è qualcuno che ci sta pensando? Che si sappia no, a conferma che la lotta politica italiana s’è ridotta a un regolamento di conti poco più che personale.