Il gettito che manca al fisco va cercato più fra i 20 milioni di italiani (poco meno della metà) che dichiarano meno di 15mila euro all’anno di imponibile Irpef o fra i 5 milioni di italiani residenti all’estero? L’Agenzia delle Entrate, negli ultimi giorni, ha deciso di puntare con decisione oltre confine, a 360 gradi: ad esempio, sui 6mila italiani residenti nel Principato di Monaco, ma anche sui primi pensionati Inps che hanno deciso di cogliere l’opportunità offerta dal Portogallo (dieci anni di “zero tasse” per le “pantere grigie” Ue che vi si stabiliscono). Si tratti di un miliardario in euro a Montecarlo o di un pensionato a Malta, l’Agenzia ha deciso di affilare i raggi X: un italiano che pure risieda fuori Italia per 187 giorni all’anno, ma che mantenga in Italia una casa con utenze allacciate, un’auto, una partita Iva, una pensione o un conto corrente attivo si deve preparare a vedere contestato il suo “permesso di soggiorno fiscale” all’estero. Si tratti dei suoi redditi (a maggior ragione se prodotti in Italia) o dei suoi patrimoni, a maggior ragione se la loro esistenza venisse accertata nell’occasione dal fisco italiano.
Probabilmente sarà più facile scoprire in qualche paradiso fiscale doc qualche tesoretto ancora nascosto al fisco e sollecitarlo alla voluntary disclosure (ciò che sembra il vero obiettivo dell’amministrazione finanziaria). È il secondo tentativo di “richiamo concordato” dei capitali all’estero: è partito il 7 febbraio e sarà possibile usufruirne fino al 31 luglio. L’incasso previsto è di 1,6 miliardi: poco più di un terzo dei 4,3 che ha fruttato la prima edizione della voluntary, fra il 2015 e il 2016. Il risultato, allora, è stato superiore alle aspettative: oltre 130mila domande di regolarizzazione per oltre 59 miliardi di capitali “sommersi” (il 70% provenienti dalla Svizzera).
Uno-virgola-sei miliardi: metà della “manovrina” che il governo italiano deve presentare alla Ue entro aprile per la promozione definitiva del bilancio 2017. Ma nulla rispetto all’impegno che – sulla carta, ma non tanto – il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, dovrà assumersi più o meno nello stesso termine sulla riduzione del debito pubblico. L’Italia è ancora al 132% rispetto al Pil, secondo solo alla Grecia, 50 punti base oltre la media Ue, al livello doppio al 60% considerato fisiologico dai trattati di Maastricht. Se entro fine anno il Paese non sarà uscito dalla grey-list scatteranno le clausole di salvaguardia più volte rinviate, anzitutto un rincaro dell’Iva (dal 10% al 12% e dal 22% al 25%).L’appuntamento programmatorio con il Def, in ogni caso, è ravvicinato: fine aprile.
Già l’Iva: il “gettito perso”, ha detto un mese fa il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, è stimabile in 35-40 miliardi all’anno (circa un terzo dell’evasione totale calcolata in 110 miliardi). Nel 2016 alla voce “lotta all’evasione” il fisco ha recuperato 19 miliardi, ha ricordato il premier Paolo Gentiloni: ma al lordo della “Voluntary-1” e di molti “versamenti spontanei”, non legati a un’effettiva azione anti-evasione. Che poi il fisco abbia allentato la presa dopo gli anni dell’austerity impersonata dai funzionari Equitalia non è neppure sorprendente. Però tutti i dilemmi strutturali – le contraddizioni e i paradossi – restano sul tappeto.
Un Paese che ha avrebbe disperato bisogno di diminuire la pressione fiscale all’interno non trova di meglio che fare la faccia feroce all’estero: con risultati finanziariamente marginali e politicamente dubbi. La caccia ai patrimoni all’estero produce benefici una tantum, a meno di non immaginare che gli stessi patrimoni “sdoganati” da una sanzione ridotta vengano poi sottoposti anche a una vera e propria patrimoniale (non la escludono nemmeno gli scissionisti del Pd confluiti nel nuovo Dp). Ma un passo di questa natura ha buona probabilità di gelare sul nascere ogni accenno di ripresa di fiducia in Italia. E la finalità strategica dei “condoni” sul rientro dei capitali non è il gettito fiscale a breve, ma la rimessa in circolo dei capitali rientrati negli investimenti produttivi e finanziari del sistema-Paese. Ancora una volta la risorsa critica non sono i patrimoni, ma la fiducia dei detentori di quei patrimoni nel ritorno a un qualche new normal nel Paese.
Quasi sei anni dopo la terribile estate del 2011, il governo italiano si ritrova nuovamente a dover “far presto” sul fronte dei conti pubblici: ed è comprensibile che ogni euro racimolato sia considerato utile alla causa. Anche quelli fatti saltar fuori con un pizzico di demagogia, perfino da coloro che non avrebbero tutti i titoli culturali per farlo. Come mai un liberista-globalista come il presidente dell’Inps Tito Boeri scatena una crociata contro qualche centinaio di pensionati che vogliono vivere con il loro assegno di 3mila euro lordi in Bulgaria o a Cipro, paesi-membri della Ue? E se un padre e una madre vogliono seguire e sostenere un figlio ricercatore negli Usa?
Forse, come sembra ritenere il presidente americano Donald Trump, sarebbe più utile cominciare a far pagare il dovuto – non un euro di più, ma il dovuto sì – a tante multinazionali che finiscono per non pagare le tasse ad alcun fisco. E certamente è il caso di andare a controllare – con normalità amministrativa, non con approccio di polizia – i redditi di quella metà di italiani che dichiarano imponibili quasi di non-sussistenza. Il resto è l’esatto contrario delle tasse, e ha invece due etichette: “privatizzazioni” e “spending review”. Che non è né di destra né di sinistra, né costituzionale né populista. Va solo fatto.