Quello di venerdì sera all’Executives club of Chicago era un evento molto atteso: nulla a che fare con la mondanità, tutta sostanza. Janet Yellen, presidente della Fed, dettava infatti le ultime linee di politica monetaria, lasciando intendere al mercato cosa attendersi nel breve termine. E questa volta l’indicazione è stata meno nebulosa del solito: «Un rialzo dei tassi a marzo potrebbe essere appropriato, se l’inflazione e l’occupazione si evolveranno come atteso». Detto fatto, qualcuno ha immediatamente incolpato per questa mossa da falco l’eccesso di surriscaldamento delle prospettive economiche Usa dovuto al Trumpnomics, ovvero il programma di investimento da 1 triliardi di dollari annunciato a più riprese dalla Casa Bianca. «L’economia Usa ha essenzialmente raggiunto gli obiettivi sull’occupazione stabiliti dalla Fed e si sta avvicinando a quelli sull’inflazione. I governatori della Fed valuteranno un rialzo dei tassi nella riunione di marzo», per l’esattezza all’incontro previsto il 14 e il 15 marzo prossimi. Di più, se le condizioni dovessero continuare a evolvere in questo modo, nel 2017 ci saranno tre rialzi dei tassi la Yellen, nel corso del discorso tenuto a Chicago, ha confermato che «le prospettive di crescita moderata appaiono incoraggianti».
Yellen ha quindi sottolineato che la Fed non ha atteso troppo a lungo per una stretta sulle politiche monetarie, rispondendo agli attacchi fatti da Donald Trump durante la campagna elettorale. Cosa accadrà? Primo, occorre vedere quanto si tramuterà da parole in realtà. Secondo, se un nuovo rialzo appare già prezzato dal mercato, il quale al trend in cui si muove sembra confermarci di aver già operato un potente off-set positivo tra paura del maggior costo del denaro (e quindi di un dollaro più forte) e aspettative di crescita economica, occorre tenere d’occhio un paio di dinamiche.



Primo, trentasei ore dopo il discorso di Jaet Yellen a Chicago, da Pechino arrivavano conferme importanti per la stabilità dell’economia globale. La Cina crescerà infatti del 6,5% nel 2017: lo ha annunciato il premier, Li Keqiang, al Congresso nazionale del Popolo, durante un discorso che è l’equivalente di quello sullo Stato dell’Unione dei presidenti americani e che a Pechino risponde al più rigido e burocratico nome di “Rapporto sul lavoro del governo”. Il numero più atteso è sempre quello del Pil, perché ancora l’anno scorso la Cina ha contribuito per il 30% alla crescita globale: nel 2016, il tasso di crescita cinese ha toccato i 74,4 triliardi di yuan, 10,82 miliardi di dollari, secondo solo a quello degli Stati Uniti, mentre quest’anno il Pil cinese crescerà, in base alle le previsioni di Pechino, «intorno al 6,5%, o di più se sarà possibile in pratica».



Cosa significa questo? Da un lato che continua il rallentamento rispetto al 6,7% del 2016, ma, a detta dei vertici cinesi, «nella stabilità, perché bisogna controllare i rischi sistemici». Ed ecco quindi l’annuncio di ulteriori tagli all’eccesso di capacità produttiva nell’acciaio, -50 milioni di tonnellate e nel carbone, -150 milioni di tonnellate. Ovvero, al netto della sovrapproduzione che ancora pesa tantissimo nelle dinamiche macro globali, la Cina intenderebbe esportare meno deflazione nel mondo d’ora in poi, tagliando gli eccessi produttivi nel ramo delle commodities: un ulteriore driver dell’inflazione Usa e Ue, al netto dell’ultima fiammata? Nel qual caso, la Fed dovrebbe davvero tenere fede alle sue promesse di aumento del costo del denaro, con quello che ne conseguirebbe a livello di servizio del debito denominato in biglietti a partire dai mercati emergenti e di correzione dei corsi azionari, mentre l’Europa potrebbe trovarsi a dover fare i conti con pressioni core che andrebbero a mettere in discussione il percorso fin qui tracciato per il Qe della Bce, i cui ricaschi sul comparto corporate europeo sono stati più volte sviscerati su queste pagine.



Nelle previsioni-obiettivo per il 2017, la Cina ha fissato un deficit di bilancio del 3% rispetto al Pil, ma niente stimolo massiccio da parte dello Stato, limitandosi ad annunciare investimenti per 800 miliardi di yuan (109,2 miliardi di euro) per il settore ferroviario e di 1800 miliardi di yuan (245,7 miliardi di euro) per le autostrade e le altre vie di comunicazione. Da notare che l’anno scorso il rallentamento programmato e pilotato del Pil era stato molto dibattuto a Pechino, quest’anno è passato senza alcuna polemica neanche accademica: il fatto che la Cina guardi ai consumi interni e non più all’export come driver di crescita sostenibile è la nuova normalità. E la Fed dovrà farci i conti.

Seconda dinamica con cui fare i conti, il vero stato di salute dell’economia Usa. Immagino che sia capitato anche a voi, nelle ultime due settimane, di imbattervi – nel corso di talk show e approfondimenti – nel giornalista americano Alan Friedman, ospite catodicamente ubiquo nel presentare il suo ultimo libro, “Questa non è l’America”. Semplice la tesi di fondo del volume: se Trump è andato al potere è perché non solo il sogno americano è morto, ma perché non esiste più da almeno un trentennio.

Nello sciorinare dati del suo viaggio nell’America profonda, Friedman sottolinea un fatto più volte: sono oltre 100 milioni gli americani a rischio povertà, questo alla faccia della narrativa obamiana della ripresa economica shock vendutaci da tutti i media almeno fino alla fine dello scorso anno. Benvenuto a Friedman nella realtà, dov’era però lui lo scorso anno, quando il sottoscritto denunciava questa realtà ogni settimana? Basta che andiate a controllare l’indice dei pezzi che ho pubblicato e vedrete come fin dalla primavera del 2015 io dicessi chiaro e tondo che il rally di Borsa fosse sostenuto unicamente dai buybacks azionari garantiti dalla Fed, che la classe media era stata devastata, che la partecipazione alla forza lavoro continuasse a calare, che a beneficiare dei nuovi posti fossero praticamente solo over-55 disposti a tutto pur di raggiungere la pensione, che si creava un numero record di nuovi baristi e camerieri, mentre i livelli occupazionali della manifattura erano a piombo, che la ratio scorte/vendite era da recessione in un Paese la cui economia si basa al 70% sui consumi, che gli indici macro erano tutti da picco pre-2007: dov’era Friedman? E non pensiate che Il Sussidiario mi pagasse soggiorni in America per scrivere quanto scrivevo, lo facevo da Milano, utilizzando dati ufficiali Usa raggiungibili comodamente via computer, senza bisogno di compiere viaggi-reportage nel cuore dell’America profonda. Il problema è che io non ho padroni, se non voi lettori, quindi posso dire la verità, qualcun’altro invece doveva mantenere la retorica obamiana viva per spianare la strada a Hillary Clinton e, oggi, si trova nella condizione di smontare tutto con colpevole ritardo, perché il tifone Trump ha mostrato al mondo che il Re è nudo.

Volete un esempio? Immagino tutti saprete cosa sia Snapchat, il servizio di messaggistica istantanea per smartphone e tablet che consente di inviare agli utenti della propria rete messaggi di testo, foto e video visualizzabili solo per 24 ore. Venerdì scorso, nel primo giorno di quotazione del titolo a Wall Street, l’azienda hi-tech dei messaggini che scompaiono ha guadagnato il 44%, arrivando a 24,48 dollari per azione rispetto ai 17 dollari del collocamento: un balzo che porta la capitalizzazione oltre i 33 miliardi. Durante il collocamento Snap Inc, che fa capo dell’app di messaggistica Snapchat, ha venduto 200 milioni di azioni a 17 dollari l’una, un prezzo superiore al range di 14-16 dollari fissato a metà febbraio. Con l’Initial Public Offering, (Ipo), il gruppo ha raccolto 3,4 miliardi di dollari. A conti fatti, lo sbarco in borsa azienda hi-tech è stato, per dimensioni, il più grande tra i social network e il secondo dopo quello di Alibaba del 2014.

A fronte di quali numeri, però? Partiamo dal bilancio 2016. Snapchat ha chiuso con ricavi per 404,5 milioni e una perdita netta di 514,6 milioni, in crescita rispetto al rosso di 372,9 milioni segnato nel 2015. Nel prospetto inviato alla Sec prima della quotazione, la società ha fatto presente come non abbia mai maturato un solo dollaro di utile dalla sua nascita nel 2011 e ha avvertito come potrebbe non produrre mai alcun risultato positivo. Eppure, Twitter, tanto vituperata per non avere ancora mai segnato un bilancio positivo, in borsa capitalizza 4,5 volte il suo fatturato, mentre stando alle valutazioni di venerdì, Snapchat viene stimata a 84 volte il suo fatturato, quasi 20 volte in più dei più celebri cinguettii. Perché? Perché Twitter non consente controllo attraverso gli algoritmi, quindi va schiantata: trattasi di scelta meramente politica. Snapchat, invece, è la nuova Facebook, la corsa all’oro hi-tech può ripartire.

Peccato per un dato. Sapete qual è la percentuale di lavoratori americani impiegati nelle aziende avveniristiche nate negli Usa dopo il 2000 e che stanno garantendo al mercato performance folli? Lo 0,5%. Non ci credete? Andate a controllare, non temo fact-checking. È questa l’economia Usa con cui tocca fare i conti a noi, ma anche alla Fed, quando parla di rialzo dei tassi e crescita sostenuta. Crescita sì, ma di bolle. Sapete cosa garantisce, in realtà, ancora fiducia al mercato, tale da far digerire le parole della Yellen senza colpo ferire? Il fatto che Trump nel suo discorso al Congresso della scorsa settimana abbia parlato a chiare lettere di un aumento record delle spese militari, con il budget del Pentagono fino a 54 miliardi di dollari: insomma, il vecchio caro warfare, il moltiplicatore keynesiano del Pil garantito dal comparto bellico-industriale Usa, torna in grande stile, altro che muri e autostrade. E lo stesso vale per l’Europa, visto che lo stesso Trump ha imposto l’aumento delle spese militari per i membri Nato fino al 2% del Pil, per l’Italia 15miliardi in più all’anno di spese militari.

Ecco la realtà, quella che ai telegiornali non vi dicono. E che Friedman vi racconterà tra qualche anno.