Perché la crisi europea è una crisi storica? Per una ragione, innanzitutto: perché ogni apparente “soluzione” acuisce e insieme manifesta ancora più radicalmente la vastità del problema. Non se ne esce. L’Europa non può fare come il barone di Münchausen: dalle sabbie mobili non uscirà tirandosi per il codino. Da questo punto di vista, questo Continente, blindato nel bunker governato dall’eurocrazja, somiglia più alla cantante “calva” di Ionesco: nessun codino al quale aggrapparsi, niente più chioma: l’Europa è finita. Ha iniziato il suo declino proprio nel momento del rampantismo europeista modello consumo di droghe pesanti: crollato il Muro di Berlino, da Maastricht in poi, il successo di questa mega-macchina senz’anima ha anticipato la sua crisi definitiva.
Si può anche morire di successo, fin dall’inizio, soprattutto quando, in Italia, una classe politica viene spazzata via manu militari e lo Stato torna a essere una vacca da ingrassare prima e da mingere dopo. Una vacca munta da rapaci seconde file con la funzione più tipicamente utile all’Europa: essere prestanomi dei banchieri. Solo l’immaginazione storica di Ezra Pound è riuscita a disegnare il profilo del futuro e l’abc dell’economia ha richiamato naturaliter il bancocentrismo delle nuove élites. La strada è stata consumata da queste vecchie talpe e, alla fine, ecco il grido di vittoria: ben scavato, vecchia talpa!
Versailles e i Quattro dell’Apocalisse in seduta plenaria è l’acme di questo stato di cose: l’Europa che prima si pensa come volano del mondo, poi si ripensa come sistema di equilibrio dei mercati e infine si ridisegna a tavolino, senza una voce che esca dal popolo è un cimitero colmo di cadaveri eccellenti.
La Merkel favoleggia di un ritorno alla “prosperità”, mettendo tra parentesi che la prosperità è finita con l’Europa e oggi perfino quella tedesca è sotto schiaffo. E ciò a causa dell’Europa. Hollande rivisita la storia e inaugura la formula delle differenti velocità, un tema caro anche a una certa sinistra post-comunista, negli anni ’90 del secolo scorso, vedi alla voce Massimo D’Alema, e con questo ho detto tutto.
Un Continente che non cresce rispetto all’area del Pacifico, che mantiene fuori anche uomini e donne di quell’area, grazie alla leva illiberale di Schengen, e che si gonfia di migranti solo in minima parte in fuga dalle guerre, in realtà potenziali eversori del nostro ordine liberaldemocratico, non merita di avere un futuro decente. Non a queste condizioni. La crisi è storica, come già detto. L’Europa come colpa si è rovesciata nell’Europa che colpevolizza l’altro. L’altro è oggi il populismo, ossia il popolo sovrano che dice no all’establishment: se non fosse grottesco, sarebbe tragico.
Quando un sistema istituzionale non legittimato dal popolo, ultimo totalitarismo diffuso nel nostro Continente, dopo il comunismo, il nazismo e il fascismo (ma quest’ultimo, rispetto all’Ue, è un autoritarismo imperfettamente congegnato), viene sbeffeggiato in ordine da Trump, dall’Inghilterra, vedi Brexit, of course, e perfino da Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine, direi che è ora di chiudere i battenti e riprendersi le libertà nazionali in un clima di cooperazione scelta, deliberata, strategica e funzionale allo sviluppo. Sviluppo, sì, ma spiego nel dettaglio: sviluppo dei popoli. La vera prosperità, quella dei popoli. Il resto è Versailles, ma in questo nessuno può dire: l’Etat c’est moi.