Ora potrebbe davvero essere finito il tempo delle prese in giro. Il grafico a fondo pagina ci mostra come per la prima volta dopo 5 anni l’indicatore principale per l’inflazione Usa abbia raggiunto il livello predeterminato dalla Fed ovvero il 2%. Cosa significa questo? Che, stando a quanto ci dice la Banca centrale statunitense, non ci saranno più scuse rispetto a un percorso di innalzamento dei tassi di interesse e di normalizzazione della politica monetaria: dobbiamo crederci? Questa domanda ha un’unica risposta: sì, ma soltanto se si vuole indurre un calo dei mercati per una qualche strategia economica e finanziaria occulta. 



Insomma, la Fed che fino a ieri si definiva totalmente dipendente dai dati macro per quanto riguarda le sue scelte legate ai tassi, ha di fronte a sé la conferma del buon lavoro compiuto con anni di allentamento quantitativo: l’inflazione è lì dove si vuole che stia, si può cominciare un percorso virtuoso che riporti il costo del denaro a dinamiche non emergenziali. Sicuri di questo? Perché sempre ieri, insieme al dato sull’inflazione, dagli Usa è arrivato anche il dato relativo agli acquisti degli americani, i quali negli ultimi 12 mesi di fila avevano speso percentualmente sempre più di quanto fossero cresciuti i loro salari: bene, a febbraio questa dinamica si è inaspettatamente invertita, con le spese su dello 0,1% su base mensile e i salari su dello 0,4%. Essendo gli Usa un’economia basata al 70% sui consumi, questa non appare una bella notizia, come d’altronde non induce al festeggiamento il fatto che sempre a febbraio il tasso di risparmio dei cittadini sia salito ai massimi da quattro mesi. Ma non eravamo in piena stagione di animal spirits, con la Borsa a cannone e l’entusiasmo dei consumatori ormai incontenibile? 



C’è qualcosa che diverge nei dati macro Usa e questo non potrà che creare dei problemi alle mosse della Fed, la quale sarà chiamata a decidere a quale narrativa credere: l’economia può ormai reggere un rialzo dei tassi nell’ordine del punto percentuale nell’arco dell’anno, magari 1,25%, oppure stiamo giocando con gli specchi, negando una realtà e riflettendone all’esterno un’altra? Oltretutto, non dimenticando un dato di fatto fondamentale che, invece, troppe volte si accantona: Casa Bianca e Fed non si sopportano, non parlano tra loro e, anzi, paradossalmente attendono l’uno il passo falso dell’altro. Pensate che Donald Trump abbia discusso il suo piano economico con Janet Yellen? Zero, l’unica comunicazione tra i due è stata attraverso messaggi criptici, uno dei quali partiva da Pennsylvania Avenue e rendeva noto alla numero uno della Fed che la fine naturale del suo mandato non era affatto la principale premura del presidente. Anzi. 



E perché dovrebbe interessarci tutto questo? Semplice, perché ieri c’è stata la conferma del brusco rallentamento dell’inflazione nell’area euro. A marzo, stando alla stima preliminare di Eurostat, la crescita media dei prezzi al consumo si è ridimensionata all’1,5% dal +2% segnato a febbraio. Un calmieramento a cui hanno contribuito le voci che, all’opposto, nei mesi precedenti avevano sospinto la corsa rialzista: sull’energia i prezzi si sono attestati a +7,3% a marzo, dal +9,3% di febbraio, su alimentari, alcolici e tabacchi si è verificato un +1,8% dal +2,5% di febbraio. Peraltro, aggiungeva Eurostat, a marzo si è anche verificato un rallentamento dell’inflazione di fondo, l’indice depurato dalle voci ritenute più volatili al +0,7% dal +0,9% di febbraio. Dati che attenuano ovviamente le pressioni sulla Bce, laddove l’impennata inflazionistica aveva finora sollevato interrogativi sul proseguimento del massiccio piano di stimoli dell’istituzione, soprattutto in seno alla Bundesbank. 

Per Omer Esiner, esperto di Commonwealth Foreign Exchange interpellato da Cnbc, dati e prospettive di rendimenti relativamente positivi per il dollaro hanno, almeno per ora, distratto gli investitori dal fallimento della riforma del comparto sanitario e dai dubbi sulla capacità dell’amministrazione Trump di mantenere le promesse di tagli fiscali e spesa in infrastrutture. Peraltro, il dato sull’inflazione della zona euro è stato ampiamente anticipato dalla lettura dei numeri tedeschi, spagnoli, francesi e italiani e, come la Banca centrale europea aveva ammonito, il picco visto dai prezzi al consumo di febbraio era da considerarsi un fenomeno meramente estemporaneo in quanto legato alle componenti volatili di alimentari freschi ma soprattutto energia. Anche perché l’inflazione core è sui minimi dall’aprile del 2016, allo 0,7% e, quindi, questa lettura sembra dare ragione a Mario Draghi e al board della Bce, quando sostenevano che la solidità dei prezzi al consumo registrata negli ultimi mesi potesse essere volatile e temporanea. 

Chi non è sorpreso dell’accaduto sono gli esperti di Ing: «È stato bello finché è durato. L’inflazione nell’Eurozona è tornata all’1,5% questo mese, confermando il fatto che il recente incremento al 2% era solo temporaneo. Ci aspettavamo questo movimento, che probabilmente ridurrà ulteriormente le aspettative su un rialzo dei tassi della Bce». E proprio ieri Benoit Coeurè, membro del consiglio della Bce, ha dichiarato che la forward guidance dell’Istituto sugli acquisti di bond e le disposizioni sulle misure straordinarie di politica monetaria rimangono ancora valide, visti i dati dell’inflazione ancora sottotono. «Gli ultimi dati pubblicati hanno spostato la bilancia dei rischi per la crescita verso un territorio neutrale a mio avviso. Allo stesso tempo, i numeri sull’inflazione nell’Eurozona rimangono contenuti e il percorso previsto dalla Bce per i prezzi al consumo rimane ancora fortemente dipendente dal nostro atteggiamento di politica monetaria», ha aggiunto Coeurè. E ancora: «In linea con la nostra forward guidance sul programma di acquisto di asset, il dato sull’inflazione suggerisce chiaramente che le attuali aspettative sull’orizzonte degli acquisti e sull’utilizzo degli strumenti di politica monetaria restano valide ancora oggi». Nessuna riduzione dell’accomodamento monetario in vista a breve, quindi. 

Ora, al netto degli squilibri globali – soprattutto monetari – e della confusione che alberga negli Usa relativamente alla politica economica, pensate che il mondo potrà reggere per molto l’operato diametralmente divergente di due delle Banche centrali più potenti? A chi faranno riferimento i mercati, al falso ottimismo della Fed o, di fatto, al realismo della Bce a fronte di un’inflazione che ci dice che il Qe, a oggi, non ha ancora ottenuto l’effetto sperato? Si punterà su espansione o contrazione? Si terrà fede agli investimenti nei mercati emergenti o prevarrà la paura di una Fed che tirerà dritto sulla linea da falco, di fatto invitando chi è esposto su Paesi pesantemente indebitati in biglietti verdi a scaricare posizioni? Converrà cominciare a chiederselo, perché negli Usa – al netto delle minacce da barzelletta della Casa Bianca sui dazi – temo che qualcuno, a breve, deciderà che è giunta l’ora di fare le cose seriamente e chiederà chiarezza politica alla Fed: prevarrà la linea da distruzione creativa schumpeteriana di chi vuole che la normalizzazone dei tassi prosegua o un approccio più morbido, propedeutico a un salutare cambio di rotta e a un ritorno quantomeno all’attendismo? 

Dubito che ci vorrà molto a scoprirlo, il fatto è che non ci verrà comunicato attraverso l’ufficio stampa: saranno dei pesanti scossoni a farci capire chi ha dato le carte per primo. E, soprattutto, a quale gioco intende giocare.