Come sempre, siamo in ritardo. Avremmo dovuto completare il Documento di economia e finanza (Def) e il Piano nazionale di riforma (Pnr) per oggi 10 aprile, discutere i due documenti in Parlamento e inviarli, subito dopo, a Bruxelles per l’analisi che l’Unione europea deve fare per fine mese – un mese lavorativo accorciato dalle vacanze pasquali. Invece, il Consiglio dei Ministri è convocato per domani 11 aprile, ma probabilmente non ne uscirà né il Def, né il Pnr e neanche i loro indici e le loro tracce. Nei Palazzi romani non è chiaro se ci sarà un nuovo Consiglio dei Ministri prima di Pasqua o se l’approvazione dei documenti verrà rinviata ad attorno il 19-20 aprile. I documenti arriveranno a Bruxelles sul rotto della cuffia. Poco danno: pare che altri “grandi Stati” (segnatamente la Francia) siano in ritardo, mentre i piccoli (soprattutto i nordici) siano perfettamente in regola. Ma, riconosciamolo, hanno meno gatte da pelare.
Al solito, il nodo su cui è tesa tutta l’attenzione dei politici è come far quadrare i conti. Le preoccupazioni immediate sono per “l’aggiustamento” di 3,4 (o secondo altri di 3,2) miliardi da fare entro fine mese. Quelle a più lunga (ma non tanto) scadenza sono i 19-21 miliardi da trovare per la Legge di bilancio 2018. Devono essere individuati nel Def, che verrà “aggiornato” in settembre sulla base dell’andamento effettivo dell’economia reale nei prossimi mesi, e diventeranno il cuore della normativa da approvare entro fine 2017.
Come ci siamo ridotti in questo stato? Lo abbiamo detto spesso negli ultimi anni. Il Governo non ha fatto politica economica, ma si è occupato della “grande riforma costituzionale” (bocciata dagli elettori), di gruppi di pressione da attirare verso il Pd (unioni civili) di mance elettorali (gli 80 euro al mese ai percettori di bassi redditi, i 500 euro ai diciottenni) e cose simili. Quindi, ci troviamo ancora con una produttività rasoterra e un debito pubblico sempre più alto. Matteo Renzi aveva detto che avrebbe lasciato la politica se avesse vinto il No al referendum costituzionale. Invece, si comporta come azionista di maggioranza del Governo Gentiloni e mostra l’ansia di tornare al più presto a palazzo Chigi. Poco gli cala di essere ormai uno dei politici meno credibili del G20 e che i pronostici considerino una chimera il suo rientro a palazzo Chigi.
Possiamo solo suggerire a Paolo Gentiloni e a Pier Carlo Padoan di non dargli retta e di elaborare un Def e un Pnr che mettano l’accento sulla tanto trascurata economia reale: unicamente se la tremolante ripresina diventa crescita si potranno far quadrare i conti. A Bruxelles lo sanno. I partner europei saranno ben disposti a darci una dilazione rispetto al baratro finanziario del 2018, se presenteremo un piano realistico per l’economia reale. Questo piano deve chiaramente dare la priorità alle privatizzazioni (iniziando da quella della Rai e relativa abolizione del canone), alla riforma del “capitalismo regionale, provinciale e municipale” (ancora ottomila aziende che il Governo Renzi si era impegnato a ridurre a 1000 entro la fine del 2016!) e alle liberalizzazioni (la legge sulla concorrenza è bloccata in Parlamento e le promesse di approvarla “mettendo la fiducia” non hanno sino a oggi avuto seguito).
Ci sono, poi, altri punti cruciali emersi, ad esempio, a un seminario tenuto al Cnel il 6 aprile su come affrontare la rivoluzione tecnologica, essenziale per dare un impulso alla produttività, ma anche tale da spiazzare occupazione, soprattutto quella meno qualificata. La vera sfida che Industria 4.0 comporta, riguarda, più che la tecnologia, il lavoro. Essa potrà essere affrontata nella misura in cui la tecnologia non si ponga come strumento di sostituzione dei lavoratori, ma sia capace di abilitarne le competenze, la creatività e l’autonomia. Occorre che il sistema-Paese riesca a trovare un equilibrio tra investimenti in tecnologia e investimenti in competenze, in modo da porre il lavoratore – a valle di una crisi economica, sociale, globale ed epocale – in una nuova centralità nei processi produttivi.
La causa principale della produttività stagnante non si rinviene tutta nella scarsa quantità/qualità degli investimenti in tecnologia, ma nella mancanza di una diffusa organizzazione del lavoro in grado di implicare la piena partecipazione dei lavoratori e lo sviluppo costante delle loro competenze professionali, in particolare digitali, indispensabili per poter tenere il passo con l’organizzazione del lavoro che cambia. L’unico elemento che emerge sistematicamente come cruciale nell’attenuare i fenomeni di spiazzamento/sostituzione nel mercato del lavoro è dato dall’istruzione e dalla formazione. Nel breve periodo, infatti, e in determinati settori produttivi, l’innovazione può avere effetti dirompenti, soprattutto per quei lavoratori non in possesso di competenze e qualifiche necessarie per ricollocarsi facilmente in nuove occupazioni e in settori emergenti.
Tuttavia, come ha sottolineato una recente analisi di The Economist, le imprese, soprattutto le piccole e medie, non saranno in grado di affrontare la sfida tecnologica se non riparte il credito verso di loro e l’erogazione dei loro crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Per far ciò, bisogna anzitutto trovare soluzioni, nazionali o europee, per alleviare il peso delle sofferenze nei bilanci bancari,che tiene alta l’avversione degli istituti al rischio di credito. Infatti, il lento recupero dell’economia italiana sta avvenendo nonostante continui la riduzione dei prestiti alle imprese (-15,3% dal 2011, -2,2% nel 2016).Ma è proprio questa diminuzione uno dei freni dell’economia, che aiuta a spiegare il divario di crescita con Francia e Germania. Il credito in Italia si riduce anche nel manifatturiero (-19,6% dal 2011, -3,4% nel 2016), con ampi divari di andamenti nei vari settori.
A questi temi se ne aggiungono numerosi altri. Ma cominciare da questi, sarebbe un buon avvio.