Manca meno di un semestre alla conclusione del mandato del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Il quale non è stato il primo a salire al vertice in via Nazionale senza più l’incarico a vita di un tempo: anche Mario Draghi era a termine, ma nel 2011 fu chiamato alla presidenza Bce al quinto anno di permanenza a palazzo Koch. Non ci sono dubbi che, nel caso, sarebbe stato riconfermato. Su Visco invece, i bookmaker scommettono oggi su un avvicendamento: troppo grave, anzitutto, la crisi bancaria, benché la vigilanza di Bankitalia di Visco non sia probabilmente la prima responsabile (da due anni condivide la supervisione con la Bce e molti dissesti – da Mps alle Popolari dell’Etruria e di Vicenza – datano fors’anche prima dell’arrivo di Draghi). Ma chi – semmai – al posto di Visco? E per fare cosa?
La “narrazione” su Bankitalia insiste da sempre su una continuità di “servitori civili”, prima ancora che di tecnocrati, sul seggio di governatore: Carlo Azeglio Ciampi, divenuto infine presidente della Repubblica, ne è divenuto l’archetipo. Nella realtà, in via Nazionale poche successioni sono avvenute senza scosse e quasi tutte hanno segnato discontinuità di profili. Guido Carli, “governatore per eccellenza” del dopoguerra arrivò in Bankitalia nel 1960 dall’esterno, dopo essere stato funzionario dell’Iri, banchiere pubblico e ministro in un governo centrista. Tutt’altro che un tecnico puro: lasciata via Nazionale fu presidente della Confindustria e ministro del Tesoro in due governi Andreotti.
A Carli succede Paolo Baffi (direttore generale interno Bankitalia), ma per soli quattro anni. Deve abbandonare per le forti tensioni seguite al crack Sindona. Nel 1980 è la volta di Ciampi, forse l’unico vero momento di continuità. Ma quando nel 1993 diventa premier tecnico, i due candidati naturali a prenderne il posto – il direttore generale Lamberto Dini (ex Fmi) e il vicedirettore generale interno Tommaso Padoa Schioppa – si elidono: la spunta Antonio Fazio, “numero 4” del direttorio, un cattolico non del tutto omogeneo alla tradizione laica dell’alta dirigenza di palazzo Koch. La fine traumatica del mandato a vita di Fazio è ancora passato prossimo: dimissioni forzate e controverse dopo la battaglia a Bnl e Antonveneta nel 2005.
È allora che Ciampi – dal Quirinale – richiama dalla Goldman Sachs il suo ex direttore generale del Tesoro Draghi. La stessa ascesa di Visco matura nello stallo fra due candidature forti: una realmente interna – “ciampiana” – era nel 2011 quella del direttore generale Fabrizio Saccomanni, tatticamente sostenuto da Draghi uscente. Il contendente era il direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli: supportato dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Un identikit – quello di Grilli – non troppo dissimile da quello dello stesso Draghi: banchiere internazionale di mercato, non estraneo a Bankitalia ma neppure organico.
La mediazione ha visto prevalere Visco: un economista puro, dotato di buon curriculum (fra l’altro chief-economist dell’Ocse), ma di esperienza limitata sia nella tecnocrazia finanziaria internazionale, sia nella vigilanza bancaria. È stato certamente funzionale alla leadership di Draghi in Bce: meno nel fronteggiare la crisi bancaria italiana e i suoi snodi politico-istituzionali, all’interno e all’esterno. La Banca d’Italia di Visco non è mai riuscita né a sostenere il governo Renzi – e il ministro dell’Economia Padoan – nella dura dialettica con le authority europee; né a imporre tempi e modi tecnici quando la politica ha voluto gestire le crisi con i suoi (a cominciare dalle quattro risoluzioni bancarie di fine 2015).
Nel 2017 serve in Bankitalia un vero esperto di vigilanza bancaria? Due profili accreditati sono certamente quelli del vicedirettore generale Fabio Panetta e di ignazio Angeloni, tecnocrate della Bce fin dalla fondazione. Entrambi siedono nel consiglio di sorveglianza di Francorte presieduto da Danièle Nouy, il vero fronte della crisi bancaria italiana. Nel gioco di ipotesi e congetture sul dopo-Visco non manca però un secondo ordine di riflessioni: legato al dopo-Draghi in Bce.
Il mandato del banchiere centrale italiano scade nel 2019, ma è probabile che il processo selettivo entri nel vivo molto prima: forse già dopo l’esito delle elezioni tedesche di settembre, quando verrà aperto il cantiere di riforma della governance economico-monetaria della Ue. Il nuovo scontro aperto – nei giorni scorsi – fra Draghi e il governatore della Bundesbank tedesca sulle prospettive della politica monetaria espansiva è stato inequivocabile. Più prima che poi non ci sarà più Draghi all’ultimo piano dell’Eurotower: e non è certo che l’Italia riavrà il suo seggio finora stabile nell’esecutivo Bce (prima con Padoa-Schioppa, poi con Lorenzo Bini Smaghi). Il posto oggi occupato da Visco nel consiglio dei governatori della Bce diventerà molto più pesante, cruciale.
Visto da questa angolatura, i candidati credibili al vertice Bankitalia sono due: l’attuale ministro dell’Economia Piercarlo Padoan e Bini Smaghi, già di casa a Francoforte. Il primo – storicamente vicino ai Ds e poi ministro con Renzi – ha maturato la sua esperienza quasi del tutto fuori da Via Nazionale (prevalentemente come direttore esecutivo Fmi e segretario generale Ocse), il secondo – vicino al centrodestra, ma oggi non lontano da Renzi – è cresciuto in Bankitalia, ma ha scalato l’establishment fuori (Tesoro e Sace, dopo la Bce è presidente del consiglio di sorveglianza de gigante francese Société Gènérale).
Sembra naturalmente fanta-politica l’idea di una Bankitalia buen retiro per Draghi, en reserve per più alti incarichi.