La tensione generalizzata che il mondo – e, quindi, i mercati – sta vivendo in questi giorni può far confondere. I media prospettano scenari apocalittici in Corea del Nord, quasi la Terza guerra mondiale fosse alle porte: non è così. Questo non significa che non siano tempi pericolosi, ma attenzione a non confondere i pericoli reali da quelli creati ad arte. Quanto sto per dirvi non è affatto un invito a schierarvi, ma a guardare bene la realtà per quella che è, altrimenti anche tutte le conseguenze di questa nuova stagione di tensione vi sfuggiranno. Partiamo da due realtà, incontrovertibili. Primo, qualcuno di voi ha avuto notizie delle granitiche prove della colpevolezza diretta di Bashar al-Assad nell’attacco chimico della scorsa settimana preannunciate da Usa e Israele? Zero, come al solito solo parole. Secondo, ecco cosa ha fatto ha tempo a dichiarare a SkyTg24 il generale Vincenzo Camporini, ex Capo di Stato maggiore dell’aeronautica militare e della difesa, uno che di certe cose capisce molto più dei sedicenti analisti che affollano gli studi televisivi, prima che Maria Latella cambiasse frettolosamente discorso? «In passato siamo stati spessissimo vittime di operazioni di comunicazione che hanno indotto le potenze occidentali a una serie di operazioni che poi ci hanno fatto penare molto… Da tecnico ci sono elementi che mi lasciano perplesso. Il numero delle vittime, molto basso per un attacco chimico… L’ipotesi alternativa che si trattava di materiale chimico colpito da una bomba convenzionale e che ha diffuso un po’ del suo potenziale nell’intorno della sua localizzazione non è da escludere».
Operazioni di comunicazione: di fatto bufale, le tanto di moda fake news che fanno andare su tutte le furie la presidente della Camera, Laura Boldrini. C’è un altro modo di chiamarle: psyops, ovvero operazioni di guerra psicologica. Chi di noi davanti a quei corpi di bambini non avrebbe voluto la testa di Assad? Reazione a caldo a una più che probabile psyops, il cui proseguo classico è quello di evitare che si scavi nel reale accaduto: la notizia deve essere quella gridata e che suscita scandalo, rilanciata in maniera maniacale dai media, offrendo il minimo indispensabile di prove e il massimo di certezze emotive. Volete sapere perché conta davvero tanto la Siria? Pensate sia questione di diritti civili o democrazia negata? Guardate questa cartina, sta tutto qui: geopolitica del petrolio. Ovvero, soldi. Ovvero, potere. E se pensiamo alla tensione con la Corea del Nord, pensate davvero che il problema sia il programma nucleare e il lancio di missili balistici? La questione sta tutta nei rapporti tra Usa e Cina, Pyongyang rappresenta unicamente la pallina di una partita da ping pong, esattamente come lo Yemen nella disputa tra Iran e Arabia Saudita.
L’altro ieri Pechino ha schierato 150mila uomini al confine con la Corea del Nord e tutti a gridare alla guerra imminente, ma nessuno si è preoccupato di andare a vedere cosa ha fatto in contemporanea: accordo con Washington sulla fine del commercio di carbone con Pyongyang, di cui sono stati respinti alcuni carichi. È tutta guerra di potere, deterrenza, mostrare i muscoli senza utilizzarli: scordatevi i grandi ideali in gioco. Dietro a tutto, però, c’è dell’altro: un’enorme crisi finanziaria, ben peggiore del 2008, che va in qualche modo mascherata. Pensateci: gli americani votarono per George W. Bush perché aveva promesso una politica estera non interventista, poi votarono per Obama che prometteva di riportare a casa le truppe da Afghanistan e Iraq e, infine, hanno votato per Trump che sconfessava in ogni modo le politiche dei predecessori, assicurando la fine del ruolo di gendarme del mondo, mettendo addirittura in discussione il ruolo di Washington nella Nato e ribadendo a ogni piè sospinto America First. Insomma, tre presidenti scelti per la loro promessa di pace: e dove siamo, oggi? Di più, come abbiamo vissuto negli ultimi 20 anni? In perenne stato di guerra e tensione geopolitica, cambiavano solo gli scenari.
Questo dovrebbe dirvi molto su come funzionano le cose nella principale democrazia del mondo, oltre che potenza militare: non importa cosa il popolo voglia e cosa il presidente prometta (e magari, in cuor suo, professi davvero), a decidere è il comparto bellico-industriale rappresentato in seno al potere dal cosiddetto Deep State, i corpi intermedi che vanno dalle agenzie di intelligence ai media ai lobbisti. Se il loro governo vuole una guerra, ha bisogno di una guerra, state tranquilli che avrete una guerra. Magari, resa possibile da un casus belli, quella che il generale Camporini chiamava “operazione di comunicazione”. Il bombardamento in Siria della scorsa settimana, ne è stato un chiaro esempio. Donald Trump non solo aveva promesso non interventismo in politica estera, ma anche stabilizzazione delle relazioni con Mosca, dopo la contrapposizione frontale messa in atto dal duo Clinton-Obama nella precedente amministrazione: detto fatto, entrambe le promesse sono andate a zampe all’aria in un niente e l’agenda del Deep State è tornata quella che regola la politica estera di Washington. Prima hanno creato il caso mediatico del Russiagate con gli hacker, poi hanno smontato il gabinetto di Trump pezzo dopo pezzo, eliminando chi era troppo tiepido verso una politica estera aggressiva e russofoba e, infine, si è arrivati a creare il palcoscenico perfetto per una tensione globale indefinita, uno stato di paura permanente che non muove solo le mosse diplomatiche, ma anche – e soprattutto – le decisioni dei mercati.
Manca poco ad arrivare alla condizione ideale: ovvero, quando sai che la guerra è inevitabile e lo accetti, puoi farti un’idea abbastanza chiara di cosa succederà dopo, di cosa ti aspetta. E finalmente, puoi prendere decisioni per preparati ad affrontare l’ineluttabile. Bunker anti-atomici? Scorte di cibo, acqua e generatori? Incetta di armi? No, questo non è un film catastrofista, è la realtà. E qual è la realtà dell’America che Trump ha ereditato (avrà molte colpe, ma è al potere da 100 giorni, non possono essere tutte sue)? Ce lo dice un paper di 60 pagine della Brookings dal titolo Mortality and morbidity in the 21st Century, il quale ci mostra un quadro a dir poco desolante: la popolazione bianca tra i 45 e 54 anni, soprattutto quella con alti livelli di educazione, sta vivendo “uno svantaggio cumulativo” post-crisi del 2008.
E cosa significa questo? Ce lo mostra questo grafico, il quale mette in comparazione il tasso di mortalità in quella fascia di età per droga, alcool e suicidio in vari Paesi: guardate il trend della linea rossa, quella degli Stati Uniti. Ci troviamo di fronte a una classe media bianca, la spina dorsale della società e dell’economia Usa, in totale stato di disperazione, incapace di avere un matrimonio stabile, una famiglia unità e, soprattutto, disinteressata alla propria salute, vista l’incidenza ormai epidemica di dipendenza da droghe (anche anti-dolorifici, che negli Usa sono oppiacei in alcuni casi molto potenti) e la diffusione di obesità e diabete. Ecco la conclusione della studio: «Siamo ormai al collasso della middle-class».
Unite a questo un dato, fresco fresco: stando all’ultima lettura della Fed relativa all’utilizzo di carte di credito, a febbraio il credito revolving è salito di 2,9 miliardi, mentre quello non revolving addirittura di 12,3 miliardi: come conseguenza, a febbraio gli Usa hanno visto il dato del debito legato a carte di credito salire sopra quota 1 triliardo per la prima volta dal gennaio 2007. E le altre due piaghe della società americana, il debito studentesco e quello legato all’acquisto di auto con il credito al consumo, sempre più spesso subprime? Rispettivamente sono a quota 1,4 triliardi e 1,1 triliardi (di cui 200 miliardi apertamente subprime come rating di credito), due bombe pronte a esplodere nel cuore della società Usa, cui seguirà – ma a livello globale, anche a causa dei danni sui tassi – quella dei fondi pensione. E come vi dico da sempre, il settore automobilistico, vista la continua politica di incentivi statali dell’amministrazione Obama, è l’unico ad aver mantenuto vitale il dato industriale Usa negli ultimi anni.
Il problema è che l’aumento vertiginoso di ripossessioni di auto dovute a rate non pagate, comincia a ricordare i mutui immobiliari subprime del 2007, tanto più che la bolla automobilistica – con le dovute proporzioni – pare in procinto di esplodere come fece quella del real estate. A marzo, sette degli otto maggiori produttori Usa hanno mancato le loro proiezioni di vendita e nonostante la stagione di enormi incentivi, l’associazione dei rivenditori ha parlato del 2017, finora, come di «un anno disastroso». Il dato delle scorte di automobili, quelle che nei film si vedono stipate in enormi piazzali, è il più alto dall’ultima crisi finanziaria, il tutto con vendite al palo: la stagione degli incentivi statali e il denaro a zero della Fed hanno portato al più classico caso di mal-investment, produrre beni che non si sarebbero venduti per puro azzardo morale da droga monetaria, saturando un mercato già asfittico. Oggi a un rivenditore Usa ci vogliono una media di 74 giorni per vendere un’automobile, anche questa lettura la più alta dall’ultima crisi finanziaria. Il tutto con un parallelo crollo del prezzo delle vetture usate, visto che la National Automobile Dealers Association ha certificato che a febbraio le valutazioni sono calate ancora del 3,8% su base mensile. Non a caso, la settimana scorsa in un report Morgan Stanley ha avvertito che il prezzo delle auto usate negli Usa potrebbe crollare fino al 50% nei prossimi quattro, cinque anni.
Infine, un ultimo dato che ci viene presentato da questo grafico: in un’economia basata al 70% sui consumi, l’industria retail americana vede una vera e propria epidemia di chiusure di punti vendita. E non parliamo di negozietti all’angolo, visto che sta per chiudere i battenti il negozio Ralph Lauren sulla Quinta Strada a New York. Nell’ultima settimana hanno alzato bandiera bianca Payless Inc. e Rue21 Inc., ma il problema è generale: più del 10% dello spazio vendita del settore retail Usa, circa 1 miliardo di piedi quadrati, dovrebbe essere chiuso oggi, in base ai dati di vendita e ai bilanci dei marchi che lo occupano attraverso catene e grandi magazzini. Solo in marzo, il settore ha tagliato 30mila posti di lavoro, dopo i 28mila di febbraio: i peggiori due mesi dal 2009, tanto che il dato delle chiusure di negozi da inizio anno ha già superato quello del 2008, quando montava l’ultima grande crisi recessiva.
Capito perché serve una guerra? Capito perché il mondo deve aver paura? Perché serve una scusa seria, grave, credibile per rimettere in campo a forza massiva la stamperia della Fed, altro che rialzo dei tassi. Altrimenti, questa volta, salterà davvero tutto. Donald Trump, con il suo essere politicamente scorretto e poco ortodosso, pare il capro espiatorio perfetto. Prepariamoci, una qualche forma di guerra è ineluttabile. E necessaria, se vogliamo continuare a vivere in questo tipo di mondo.