Ma quando su un giornale leggiamo un titolo del tipo “Governo in campo”, significa che l’esecutivo ha deciso di dedicarsi collettivamente all’agricoltura – peraltro mettendo a rischio il buon lavoro di Maurizio Martina, che ne è decorosamente responsabile – o significa ciò che la metafora intende in casi normali, cioè che il governo interviene su una questione? Fa effetto la pagina del Corriere di oggi, con il combinato disposto di un titolo del genere, “Alitalia in bilico, governo in campo” e, sotto, “Mps, manca il quorum, cambieremo il piano, aumento da 8,8 miliardi”, perché raccontava implicitamente due “fallimenti di mercato” dove il governo fu, è stato, è e sarà arbitro della situazione, ma è talmente invischiato tra la burocrazia europea (colpevole su tutti i fronti), le proprie confusioni di idee, i propri limitatissimi mezzi, un po’ di falsa coscienza e tanta debolezza politica.
Su Alitalia è, purtroppo, presto detto. Il dissanguante salvataggio della vecchia compagnia di bandiera, con 4 miliardi spessi dallo Stato per ammortizzare il crac, è stato seguito da un tentativo capitalistico a sua volta fallito, con altri sperperi ma almeno privati, quello di Colaninno & C. L’attuale assetto è nato male perché una norma europea balorda – scritta da quella stessa Europa che oggi deplora il neoprotezionismo di Trump – blocca al 49% la quota che un socio “extracomunitario” (in questo caso gli arabi di Ethiad) può detenere in una compagnia aerea.
Poi, mentre il governo – giustamente, in questo senso – riafferma le responsabilità privatistiche della gestione e dell’azionariato di Alitalia, pretende che l’azienda continui a coprire rotte non remunerative come fa una compagnia di bandiera “classica”, non faccia i tagli sanguinosi che serviranno prima o poi (fuori il 20% dei dipendenti e giù del 30% i salari di piloti e hostess), ma li riduca e in più – mentre ancora le Poste si leccano le ferite dovute al coinvolgimento nel capitale dell’azienda – c’è chi farfuglia di inguaiare anche Invitalia, che gli investimenti dovrebbe attrarli, ma quelli stranieri, e non sperperarli, i suoi, come difatti non fa, e quindi vorrebbero costringerla. E così che il governo vorrebbe “scendere in campo”?
Il campo in cui invece il governo è sceso eccome, soprattutto nell’edizione originale guidata apertamente e non nascostamente da Matteo Renzi, è quello delle banche. Ed è stato come quando su un campo calano le cavallette. Riprova se n’è avuta ieri a Siena, dove l’assemblea straordinaria del Montepaschi è andata deserta in quanto non si è raggiunto il quorum di capitale sociale rappresentato per fare l’assemblea straordinaria, c’era poco più del 16% contro un minimo del 20%. Come mai? La risposta di fondo non è tanto nelle pur rilevanti questioni tecniche richiamate dall’amministratore delegato Marco Morelli, cioè l’adesione alle direttive della Bce del piano di ristrutturazione che la vigilanza europea vuole approvare prima di autorizzare l’intervento pubblico di salvataggio, in sé ormai ineludibile. La risposta sta soprattutto nella scarsa credibilità di cui l’Italia soffre agli occhi della Commissione europea e della Bce su questo fronte.
Si è appreso, dal rapporto annuale della Banca centrale europea, che su quel decreto straordinario del 23 dicembre con cui il neo-insediato governo Gentiloni – in costanza di delega a Padoan per l’Economia – ha stanziato 20 miliardi per salvare il Monte e le due ex-popolari di Vicenza e Montebelluna, nessuno ha consultato la Bce. Ma come? Le chiediamo anche il permesso di grattarci il naso e sullo stanziamento di 20 miliardi di aiuti alle banche, potenzialmente risolutivi, neanche un telegramma? Dilettanti allo sbaraglio.
Quel che si è poi capito a Siena, grazie alla trasparenza di Morelli – dal quale l’ultimo gesto trasparente ancora atteso sarebbe la dimostrazione di aver capito che il tempo della consapevolezza è giunto e che non gli resta che andarsene – è che il piano industriale stesso è in alto mare. Non si sa quali condizioni la Bce pretenderà: quanti esuberi, ad esempio, quanti ricavi attesi. Mancando un “manico” forte là dove dovrebbe esserci, cioè al governo, che si candida a diventare padrone di quel che resta del Monte, Morelli o chiunque per lui non sa da che parte sbattere la testa…
E non si capisce da dove provenga il “moderato ottimismo” manifestato qualche giorno fa dal ministro Padoan al riguardo, lo stesso che aveva creduto al reperimento imminente dell'”anchor investor” per la ricapitalizzazione privata promesso dal capo-azienda Marco Morelli. Lo stesso che affiancava l’ex premier Renzi, dedito nel gennaio del 2015 a strombazzare in tv che il Monte fosse risanato, presentandolo come un successo acquisito e non la bufala che era, come avrebbe fatto il più inavveduto dei pasticcioni di Borsa o peggio uno speculatore da quattro soldi.
Del resto, la cifra di tutta l’azione renziana sulle banche è stata quanto meno la pasticcioneria. La campagna assembleare delle ex popolari diventate società per azioni degli ultimi giorni ha confermato la gravità dei danni fatti. Tutte le banche che si sono trasformate subito da cooperative in società per azioni – a causa del goffo e ansioso desiderio dei loro modestissimi vertici di assecondare il Principe subito dopo il varo della riforma e senza attendere i tempi (peraltro biblici) dei ricorsi che l’hanno poi opportunamente bloccata – sono finite in mano a fondi stranieri. Fondi che sono spesso gli stessi, o i loro parenti, di quelli che stanno lucrando guadagni principeschi sulla gestione dei non performing loans, i crediti in sofferenza, di quelle stesse banche, ai quali li rilevano al 18% per poi rivenderseli sul mercato al 35-40, intascando il 100 per cento dell’investimento. E siamo ridotti a un regime di tale, surreale allucinazione mediatico-propagandistica, da dover sopportare che tutto questo venga descritto da Padoan, dall’ex premier e dalla Banca d’Italia come un successo riformista.
In fondo, a pensarci, non sarebbe male se il governo scendesse in campo. Resta solo da scegliere di quale coltivazione.