Ma davvero Donald Trump può permettersi di minacciare, più o meno indirettamente, la Cina, utilizzando il conflitto per procura con la Corea del Nord per forzare la mano su temi economici e commerciali? La vulgata generale vuole Washington sempre un po’ restia nell’affondare il colpo verso Pechino a causa delle enormi detenzioni di debito pubblico Usa in mano al Dragone, direttamente o attraverso il proxy belga di Euroclear. È vero, innegabile ma c’è dell’altro e a confermarlo è l’atteggiamento che Mario Draghi ha da tempo nei confronti della stessa Cina: dal numero uno della Bce mai un’accusa diretta, mai un tono fuori posto, mai un eccesso. La stessa Fed, per quanto negli anni abbia fatto notare l’attività manipolatoria sulla valutazione dello yuan, non è mai andata oltre, lasciando alla politica – ovvero a chi di economia capisce poco e niente – il ruolo di guastatore, a volte utile per arrivare a una mediazione. Ovviamente, la stampa gioca la sua parte.
Non è un caso che a pochi giorni dalla visita di Xi Jinping da Donald Trump e in pieno affaire nordcoreano, l’altra notte Bloomberg abbia pubblicato un lungo articolo dedicato al sistema bancario ombra cinese, un mostro da 9 triliardi di dollari che sta raggiungendo a larghe falcate la ratio del 100% del Pil del Dragone. Al centro dello schema ci sono i cosiddetti Wmp, wealth management products, un’infinita pletora di prodotti finanziari che garantiscono l’esistenza stessa del sistema bancario parallelo della Cina: quale l’accusa di Bloomberg? Se per caso si dovesse configurare una grave crisi per uno dei principali Wmp e il governo dovesse rifiutarsi di intervenire nel salvataggio – come, almeno a parole, ha minacciato più volte di fare – ci sarebbe una fuga di massa da quel sistema creditizio così fragile e opaco, tale da portare con sé conseguenze avverse per i mercati finanziari primari della Cina, la cui entità è difficilmente calcolabile a tavolino.
Indicativamente, gli Wmp rappresentano la principale categoria di Amp, con assets per circa 29,1 trliardi di yuan (4,2 triliardi di dollari) alla fine dello scorso dicembre e la cosa peggiore è che sono percepiti come assolutamente esenti da rischio dai risparmiatori cinesi: di fatto, delle potenziali obbligazioni subordinate al cubo. Insomma, la narrativa pubblicata l’altra notte da parte di una delle principali agenzie economiche del mondo è quella dell’allarme e, soprattutto, della scarsissima sostenibilità di questo sistema, potenzialmente in grado di creare un danno esiziale al sistema finanziario del Paese, costringendo la Banca centrale a un salvataggio senza precedenti. Questa la versione Usa dei fatti, innegabile nella sua proiezione di un rischio potenziale, di fatto un vero e proprio tail risk insito al sistema cinese.
C’è però il rovescio della medaglia, quello che all’inizio dell’articolo mi portava a chiedere se davvero Washington può alzare la voce con Pechino. Ed eccolo, questo grafico ci mostra come negli ultimi anni la Pboc non ci stia fornendo la liquidità necessaria soltanto al supporto dei veicoli finanziari ombra della Cina ma dell’intero sistema finanziario. A confermarlo è stata Deutsche Bank con un report del 7 aprile intitolato PBOC liquidity facilities: Doing whatever it takes, nel quale la tesi di fondo è chiara: la Banca centrale cinese garantirà tutta la liquidità necessaria per raggiungere gli scopi prefissatisi dal governo di Pechino, anche se questo dovesse implicare un alto grado di azzardo morale.
Insomma, di fatto, senza che la grande stampa abbia mai aperto bocca al riguardo, negli ultimi due anni la Banca centrale cinese ha dato vita al più grande salvataggio bancario di sempre per volumi: e se quel supporto venisse a mancare? Sarebbe solo il sistema bancario ombra cinese a patire o tutti i mercati finanziari, drammaticamente interconnessi e tutt’altro che in buona salute macro in questo periodo? E Wall Street, come reagirebbe a una chiusura dei rubinetti di Pechino, stante la Fed che formalmente sta alzando il costo del denaro e le dinamiche macro (di cui vi ho parlato nell’articolo di ieri) che gridano pre-recessione? C’è da avere paura? Per Deutsche Bank no, visto che «la rapida espansione del bilancio interno della Pboc che abbiamo testimoniato negli ultimi 12-18 mesi non appare di particolare nota come tail risk. Continuiamo a pensare che la possibilità che si verifichi un evento domestico incontrollabile legato alla liquidità rimanga remota, questo sempre che non si verifichi un enorme errore di politica monetaria». Insomma, tutto tranquillo dalle parte di Pechino.
O forse no. E ce lo mostrano questi due grafici, perfetto corredo di quanto denunciato martedì dal Wall Street Journal, il quale dopo aver recitato il de profundis per lo strategico settore automobilistico statunitense, deve dedicare una prece anche a quello – altrettanto strategico, se non di più, a livello globale per i principali produttori – cinese, visto che a marzo la vendita di berline è cresciuta solo dello 0,59% contro il +15% dello stesso mese del 2016, questo dopo l’aumento della tassazione legata agli autoveicoli dal 5% al 7,5%.
Il taglio della tassa operato lo scorso anno, di fatto un grosso incentivo statale, funzionò a meraviglia, ma ora il primo ritocco ha già fatto morti e feriti, questo senza contare che entro il 2017 l’aliquota tornerà al livello normale del 10%. La Ford ha già dichiarato di attendersi un netto rallentamento nel dato di vendita per l’anno in corso: in marzo la vendita di veicoli, esclusi quelli con finalità commerciali, a livello generale è salita dell’1,7% a 2,1 milioni di unità su base annua, stando a dati della China Association of Automobile Manufacturers, di fatto associazione a pieno controllo statale, ma il mercato ha comunque patito una netta decelerazione dal +6,3% di crescita di primi due mesi di quest’anno, senza contare il +10% del marzo 2016. Il tutto, come ci mostra il secondo grafico, con la ratio tra scorte e vendite che sta entrando in traiettoria statunitense e a forte rischio di creare un “tappo” di saturazione sul mercato, trattandosi della peggiore lettura da inizio 2014.
E se alcuni produttori, ivi compresi quelli dell’indotto della componentistica (i cosiddetti Oem’s), hanno visto la loro forte presenza nel settore del lusso come ancora di salvezza dal calo generalizzato, c’è un attore molto presente nella disputa tra Cina e Usa che sta invece patendo già parecchio la fine della politica di incentivo cinese, oltre che le dispute geopolitiche con i vicini: la Corea del Sud. Proprio a marzo, Mercedes-Benz ha vissuto in Cina il suo mese migliore in assoluto con un netto +32,1% su base annua di aumento delle vendite, arrivando a quota 49.871 unità, mentre a livello trimestrale siamo a +37,3% a 144.947 unità. E i produttori Usa? General Motors ha visto un rimbalzo dopo i cali di gennaio e febbraio, con il dato di marzo a +16% su base annua, soprattutto attraverso le sue molte joint ventures, Cadillac addirittura ha fissato un +63% su base annua, mentre Toyota ha registrato un +11,9% su base annua. Chi ha patito e molto? I produttori sudcoreani, visto che le continue dispute geopolitiche con Pechino, l’ultima sulla dislocazione di un sistema missilistico di difesa a cui il governo cinese si oppone strenuamente, hanno portato a un boicottaggio dei prodotti coreani da parte di molti consumatori, colpendo con durezza le vendite di Hyundai Motor e Kia Motors sul mercato cinese a marzo.
Con quest’aria a livello globale per il settore, pensate che andare al muro contro muro, rischiando un boicottaggio in stile Seul, sia intelligente per i produttori automobilistici Usa? E la minaccia di dazi, reggerebbe alle dinamiche di mercato, le quali vedono uno dei principali importatori di auto stranieri fare i conti con un calo delle vendite, un aumento delle scorte e una tassazione settoriale in continua ascesa da qui a fine anno? Proprio sicuri che con Pechino si possano mostrare i muscoli senza timore di pagarne il conto? Il sistema post-globalizzazione ha voluto garantire alla Cina un potere immenso a livello economico ma anche geo-strategico? Ora è arrivato il conto da pagare. E non sarà certo l’America first di Donald Trump il rimedio miracoloso.