Cosa vi avevo detto, in tempi non sospetti, che l’ultima cosa al mondo che Donald Trump avrebbe potuto tollerare era un dollaro forte? E cosa vi dicevo negli ultimi giorni, ovvero che la retorica anti-cinese utilizzata a piene mani in campagna elettorale non sarebbe potuta durare alla prova dei fatti? «Il dollaro sta diventando troppo forte e in parte è colpa mia perché la gente ha fiducia in me», ha affermato il presidente degli Stati Uniti in un’intervista al Wall Street Journal. Di più: «È molto, molto difficile competere quando si ha un dollaro forte e altri Paesi svalutano». Ma, guarda caso, fra chi manipola i tassi di cambio non ci sarebbe più la Cina: «Non sono manipolatori di valute», ha detto Trump, marcando così un netto cambio di rotta, un altro, rispetto alle promesse elettorali. Alle parole del presidente è seguito un sensibile calo del biglietto verde rispetto alle principali valute, in particolare il dollaro ha perso lo 0,6% nei confronti dell’euro. Capite da soli che, tolta dal novero dei currency riggers la Cina, restano soltanto Giappone ed Europa: non a caso, dopo le parole di Trump lo yen si è rafforzato ai massimi da cinque mesi. Che il presidente Usa abbia voluto mandare un bel messaggio?
La cosa pare indubitabile: resosi conto che una cosa sono i film di Hollywood e un’altra la realtà, l’inquilino della Casa Bianca è sceso a più miti consigli dopo il meeting in Florida con Xi Jinping e ha lanciato più di un ponte verso Pechino, utilizzando la crisi nordcoreana come collante, più che come motivo di attrito. Tanto più che è di ieri la notizia in base alla quale la Cina a marzo ha segnato un surplus commerciale di 23,9 miliardi di dollari, in calo rispetto ai 25,2 miliardi di 12 mesi fa, ma meglio dei 10 miliardi ipotizzati dagli analisti. Il trend, in base ai dati diffusi dall’Amministrazione generale delle Dogane, è frutto di export in accelerata a +16,4% dopo il -1,3% di febbraio e le stime di +3,2%, mentre l’import si porta a +20,3% (+38,1% a febbraio e meglio del +18% atteso). Il balzo inaspettato dell’export rappresenta un forte segnale per l’economia in fase di trasformazione da un modello trainato dalle esportazioni a uno basato sui consumi. Certo, delle criticità di fondo cinesi vi ho parlato ieri e persistono anche alla luce di questo dato, ma resta il fatto che se qualcuno può dare le carte in questo momento al mondo, quello è proprio Pechino, almeno fino a quando il prezzo del petrolio non garantirà un ricostituente ai conti dei Paesi esportatori.
Ora, permettetemi un piccolo salto logico. Sempre ieri, mentre si delineava lo scenario di “alleanza” globale tra Usa e Cina, il Bollettino economico di Bankitalia rendeva noto che «nei primi tre mesi dell’anno, l’economia italiana avrebbe continuato a espandersi in una misura valutabile attorno allo 0,2% rispetto al trimestre precedente, pur con alcuni rischi al ribasso. La crescita nei servizi avrebbe più che compensato l’indebolimento della manifattura e, inoltre, le intenzioni di investimento sono nel complesso favorevoli e gli scambi con l’estero hanno tratto beneficio dal miglioramento della congiuntura globale». Ma nonostante la crescita globale sia attesa in ripresa per il prossimo biennio, con una spinta prevista dalle politiche espansive già in atto o attese, «la ripresa dell’economia globale rimane soggetta a vari elementi di incertezza». Bankitalia mette inoltre in evidenza come «gli investitori esteri abbiano ridotto le loro consistenze di titoli di portafoglio italiani per 75,2 miliardi nel complesso del 2016, uscendo soprattutto dalle obbligazioni bancarie (28,7 miliardi) e dai titoli di Stato (24,6 mld)».
Di più, in contemporanea i dati preliminari dell’Istat confermavano come l’inflazione a marzo 2017 abbia frenato all’1,4%, dopo quattro accelerazioni consecutive: l’indice nazionale dei prezzi al consumo resta invariato su base mensile e registra un aumento dell’1,4% rispetto a marzo 2016. A febbraio l’aumento tendenziale era stato dell’1,6%, il più alto da quattro anni. Nel dettaglio, la spesa settimanale degli italiani a marzo vede prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona in calo dello 0,9% rispetto a febbraio, ma in aumento del 2,3% rispetto all’anno precedente. Ora, ancorché i rincari a febbraio avessero raggiunto il +3,1%, resta un dato pesante: il carrello della spesa degli italiani è caro a causa di dinamiche salariali schiantate al suolo e con pochissime possibilità di ripresa in tempi brevi. Se sul tema ha sentito la necessità di intervenire anche Mario Draghi in persona, l’altro giorno, significa che siamo al limite del tollerabile: o si rimette potere di acquisto nelle tasche dei lavoratori oppure questo Paese è morto, costretto a una lunga agonia da zero virgola. Stiamo parlando, inoltre, dello stesso Paese che in queste ore sta facendo contorti artifici contabili per far quadrare la manovra correttiva richiestaci dall’Europa, ma che, proprio in virtù della volontà di non deprimere ulteriormente economia e consumi attraverso una tassazione generalizzata come l’aumento dell’Iva (senza contare i veti in chiave politica di Matteo Renzi in tal senso), ha di fatto già alzato a 20 miliardi il conto della manovra che questo Def anticipa, quella d’autunno.
Direte voi, cosa c’entrano le due cose? Cosa accomuna la volontà di Trump di evitare un frontale con la Cina con il destino dell’Italia? Bene, fatevi un paio di domande. Primo, se l’Ue finirà nel tritacarne della guerra commerciale e valutaria statunitense, quale pensate che sarà l’economia a entrare per prima nel mirino dei mercati, almeno come livello di percezione del rischio Paese? Secondo, Mario Draghi avrà la forza e l’autonomia di calmierare gli spread operando sui debiti sovrani, quando ormai l’autunno sarà alle porte e la Germania, dalla sua posizione di forza e in vista del voto politico, scatenerà una vera e propria guerra per ottenere una qualche forma di tapering del programma di Qe? C’è poi una terza domanda da porsi: il governo italiano sarà abbastanza solido e credibile a livello internazionale da reggere l’urto potenziale di un attacco in piena regola?
Mi faccio queste domande perché, al netto delle convinzioni e delle posizioni personali di ognuno di noi sull’Europa e sull’euro, dubito che qualcuno possa vedere nelle autorità europee, politiche prima che monetarie, uno scudo che possa proteggere Roma dai marosi del mercato. Donald Trump ha parlato, Xi Jinping ha parlato e l’Ue? Non pervenuta, non avendo una voce unica. Oltretutto, con l’incognita pre-estiva del voto presidenziale francese, già oggi in grado di far moltiplicare a livelli record l’open interest su opzioni di protezione, visto che prende sempre più piede l’ipotesi – infernale per i mercati – di un possibile ballottaggio fra gli estremi, ovvero Le Pen contro Mélenchon.
Come la candidata dell’estrema destra, infatti, Mélenchon, se eletto, vuole rinegoziare con i partner europei i trattati alla base dell’Ue e dell’euro. Lui minaccia, nel caso non fossero soddisfatte le sue esigenze (a partire dalla fine del patto di stabilità), una serie di ripercussioni, come il congelamento dei contributi francesi al budget europeo, fino a un’uscita effettiva dall’Unione. E sempre come la Le Pen, Mélenchon promette di agire sulla leva della spesa pubblica: nel suo programma si parla di 273 miliardi di euro supplementari in cinque anni. Entrambi vogliono mantenere la patrimoniale, l’imposta sui ricchi (Fillon vuole toglierla e Macron ridurla). E Mélenchon, oltre i 400mila euro lordi di redditi annui, applicherà un’imposta al 100%. Inoltre, entrambi i candidati puntano a scendere dai 62 ai 60 anni per l’età pensionabile. Insomma, un potenziale terremoto.
Pensate che l’Italia riuscirà a uscire indenne da un tritacarne globale e interno simile, al netto dei nostri conti e di un’instabilità politica che cresce di giorno in giorno? Urgono persone di buon senso e con una dose ragguardevole di ragion di Stato: stavolta non sarà autunno caldo o la solita crisi speculativa cui siamo abituati da sempre, stavolta potrebbe essere un potenziale diluvio. E in troppi pensano di potersi mettere al riparo con l’ombrello rotto dell’Ue o della Bce.