Il 97 per cento degli italiani, ricorda Federico Fubini su Sette del Corriere, dal 2005 al 2014 non ha goduto di alcuna crescita economica. È il dato più alto, e quindi più preoccupante, tra i Paesi sviluppati. Molto più efficacemente di molti economisti, e intervistato dalla Rai, Flavio Briatore fa notare che quello che conta per le famiglie è il potere di acquisto e se questo diminuisce si diffonde quel senso di povertà che si sta impadronendo delle nostre vite.
Alberto Mingardi conferma per conto suo l’analisi e aggiunge sulla Stampa che la mancata crescita non sembra più essere un problema delle nostre classi dirigenti impegnate o rassegnate piuttosto a gestire il declino. Si avverte una forma di sfiducia delle istituzioni che si trovano a fronteggiare problemi in apparenza senza soluzioni ben sapendo che la manovrina appena approvata con il resto delle misure non è nulla più che un pannicello caldo.
Il ministro Padoan sa bene, per averlo detto egli stesso, che si trova a calpestare un sentiero di montagna molto stretto che si snoda su un crinale naturalmente in salita. Possiamo aggiungere che il fondo è limaccioso e minaccia di piovere: il rischio di fare un capitombolo per ritrovarsi a valle con le ossa rotte non è peregrino. In più il guardiano europeo chiede cose che divergono dalla volontà del manovratore nazionale.
Usando un’altra metafora, Luciano Fontana scrive sul Corriere che la palude è diventata il luogo esistenziale della politica la quale, rincara la dose Antonio Polito, impedisce di fare le cose che veramente servirebbero come puntare tutte le risorse – a maggior ragione se scarse – sulla riduzione delle tasse sul lavoro a vantaggio d’imprese e dipendenti. Una considerazione di buon senso che non ha bisogno di scienziati per essere compresa.
Lasciare più soldi agli imprenditori e ai lavoratori vuol dire favorire allo stesso tempo investimenti e consumi. Esattamente quello che serve alla nostra economia per uscire dall’angolo della stagnazione perché la prevista crescita dell’1 per cento – su o giù di lì – può servire a fini statistici, ma non certamente a invertire l’andamento reale e psicologico di una società che ha deciso di chiudersi in difesa rischiando peraltro di prendere tanti gol (e le metafore aumentano).
Il fatto è che a questo gioco il pericolo di perdere la partita, e magari retrocedere, è molto alto nonostante le rassicurazioni che ci diamo a voce. Convince pertanto il ragionamento sviluppato da Paolo Savona e Giorgio La Malfa (quest’ultimo anche sul Mattino) di rovesciare le regole che ci conducono alla sconfitta scambiando di posto vincoli e obiettivi per porre questi al centro dell’attenzione e non più quelli che limitano ogni azione.
È chiaro che per fare una simile scelta bisogna saper bene dove andare e approntare i mezzi necessari. Ed è altrettanto chiaro che per riuscire nell’intento occorre sfuggire alle sirene massimaliste (oggi si direbbe populiste) per mantenere ferma la rotta riformista troppe volte sacrificata sull’altare dei capricci elettorali. E allora appare evidente che prim’ancora di pensare o parlare di alleanze per il voto è necessario stabilire da che parte stare.
Anche in politica sarà bene tenere i fatti separati dalle parole.