Non è affatto una cattiva idea – anche se molti autorevoli colleghi economisti l’hanno criticata – presentare, come ha fatto il Governo Gentiloni-Padoan, i due documenti programmatici Def e Pnr non solo insieme tra di loro (come previsto sia dalla normativa italiana sia dal Fiscal compact europeo), ma anche congiuntamente al decreto legge per mettere i conti della finanza pubblica in linea con le richieste delle autorità europee e, quel che è più importante, dei mercati finanziari (lo spread si sta ampliando). In tal modo si può avere una visione unica di come, e di dove, il Governo percepisce stia andando l’economia e la finanza pubblica.
Il decreto legge sui conti pubblici si riferisce al brevissimo termine; a come fare sì che i conti dell’anno in corso quadrino. Il Def al medio termine, dato che in genere i modelli econometrici su cui si basano le proposte di politica economica hanno uno span di 24-36 mesi. Il Pnr deve invece guardare al lungo periodo poiché tratta di “riforme strutturali” (ossia alle strutture dell’economia, non delle istituzioni o delle forme di governo e di governance). Analizzare i tre documenti simultaneamente ha molti vantaggi, in primo luogo quello di formulare un giudizio informato sulla loro coerenza e compattezza.
Qui viene quello che potrebbe sembrare il primo problema. Da un canto, Def e Pnr ipotizzano una crescita basata su riduzione di tasse e imposte in modo da stimolare consumi e investimenti, ma non specificano quanto e quando (anche se si promette per il prossimo esercizio una riduzione del cuneo fiscale-contributivo). Dall’altro, l’aggiustamento per il 2017 in corso prevede vari ritocchi all’insù, quindi un aumento di tassazione e imposizione. La “teoria economica dell’informazione” insegna che gli “agenti economici” (individui, imprese, pubbliche amministrazioni) guardano più ai comportamenti di oggi che alle promesse per domani. Quindi, la riduzione del carico tributario e contributivo difetta di credibilità. Non ne soffrirebbe se fosse inserita in un quadro di crescita sostenuta.
Purtroppo non lo è. Già dall’anno in corso. Per ammissione dello stesso Governo, la quadratura dei conti per l’esercizio in corso è stata effettuata applicando quello che gli statistici chiamano il “metodo Haile Selassie”, dal nome dell’Impero d’Etiopia, che era dotato di intuito politico e militare, ma non era stato allievo di Corrado Gini (il maggior statistico dell’epoca). In breve, alla fine degli anni Sessanta, l’Impero Etiope decise di fare il primo censimento della popolazione. Il compito venne affidato alla Us Mapping Mission (affiancata da giovani statistici). Data la mancanza di strade in un Paese vasto e montagnoso, il censimento venne effettuato per elicottero, contando le capanne e attribuendo a ciascuna un quoziente di popolazione, stimato, per campionamento, per ciascuna Provincia dell’Impero. Quando i risultati vennero portati al Gepi, Palazzo Imperiale, il Re dei Re ebbe uno scatto d’ira: era convinto che i suoi sudditi fossero molto più numerosi di quanto stimato da quei “ragazzacci americani”. Fattisi spiegare il metodo, ordinò che venissero raddoppiati i coefficienti.
Il duo Gentiloni-Padoan sono più raffinati del Re dei Re etiope e non hanno il potere di ordinare di cambiare i dati. Tuttavia, i documenti spiegano che la manovra a breve si regge su un “aggiornamento” della crescita del Pil per il 2017 in corso e a un ulteriore aumento del prodotto interno negli anni immediatamente successivi, il 2018 e il 2019. Attenzione, data l’interconnessione dei documenti, se si sbaglia nella relazione tecnica per il decreto legge sui conti pubblici 2017, l’errore si amplifica negli anni successivi. Analogamente a quanto fatto fare da Haile Selassie hanno portato la crescita del Pil 2017 dall’1% (stima-obiettivo Istat) all’1,1%. Un modesto 0,1%. È sempre, però, la goccia che fa traboccare il vaso.
Non è dato sapere quale strumentazione econometrica sia stata utilizzata: palazzo Chigi non ne ha una, via Venti Settembre ha quella della Ragioneria Generale dello Stato che solo tocca la macro-economia. Il Cnel che ogni anno sino al 2014 presentava un rapporto elaborato con Prometeia, Irs e Nomisma è stato privato di risorse dal primo gennaio 2015. Non è chiaro se sia stato fatto un confronto con le previsioni quantitative dei 20 istituti del consensus (tutti privati, nessuno italiano) e se qualcuno a palazzo Chigi o a via Venti Settembre sia – come il vostro “chroniqueur” – abbonato ai loro servizi. In effetti, le stime del consensus per la crescita del Pil italiano nel 2017 variano tra lo 0,6% e l’1,1%, l’analisi di rischio da una bassa probabilità al raggiungimento anche dell’1%, la media si pone allo 0,9%, la mediana allo 0,8%. Per il 2018 il consensus vede un rallentamento in linea con il resto dell’area dell’euro, del quadro geopolitico internazionale e dell’avanzare del protezionismo.
Lo 0,1% è poca cosa (“roba da ridere” si direbbe in Emilia), ma in questo contesto vale molto. È lecito che si chieda una spiegazione. E aspettarsi che la si dia, se il Parlamento la domanda.