Non sorprende che Luigi Zingales muoia dalla voglia di “aprire un dibattito serio e costruttivo su euro sì, euro no”. L’economista di Chicago conserva perfino un certo grado di trasparenza quando – all’inizio del suo op-ed di ieri sul Sole 24 Ore – cita i partiti uno per uno: dai Cinque Stelle alla Lega, da Forza Italia a a Fratelli d’Italia, solo il Pd distinto con un pizzico di rispetto per Matteo Renzi, di cui Zingales è stato ospite alle Leopolde della prima ora. Perde solo quindi un pizzico di credibilità, Zingales, quando sostiene che il dibattito recente sulla “realtà e razionalità” dell’euro data da un oscuro saggio di tali Fratscker e Stacca nel 2009. Egualmente, non sembra l’altrettanto oscuro John Cochrane – economista di Stanford, primo contributor annunciato da Zingales – la voce giusta per chiarire ai lettori del Sole se l’euro che hanno in tasca sono una moneta o un fake.
La questione che Zingales (ri)propone formalmente ai suoi fellow economisti – con la narrativa del case study accademico – è dunque: l’euro resterà (e l’Italia ci resterà)? I lettori/elettori sono chiamati a seguire come le salmerie rispetto agli eserciti in marcia: i partiti, i candidati premier, i loro staff economici. Ma tutto ciò è appunto “narrativa”. La realtà dei “dibattiti accademici” sui media – e Zingales lo conosce per primo – è diversa. Non a caso nel suo articolo cita la bassa popolarità dei “sedicenti esperti economici” che hanno fallito le loro previsioni (“catastrofiche”) per il dopo Brexit o il dopo-referendum costituzionale italiano. Ma il compito degli “esperti economici” da giornale – “sedicenti” e non – non è mai quello di formulare previsioni esatte: queste ultime (a cominciare da quelle politiche su Brexit o sulle presidenziali americane e da quelle economico-finanziarie sul dopo) vengono prodotte a prezzo adeguato da analisti “non sedicenti” per clienti privati. Il compito dei “sedicenti esperti economici” sui media è nei fatti quello di orientare il dibattito politico, non di verificare quello scientifico. È quello di identificare e selezionare candidature di “esperti economici” per i top post di ogni nuova “amministrazione”. E se ce n’era bisogno, Zingales ha definitivamente confermato la sua (auto)candidatura per un posto nella stanza dei bottoni del governo italiano che verrà, dopo le elezioni 2018.
Sul Sussidiario abbiamo giù incluso Zingales tra gli “esperti economici” in campo: certamente assieme e in competizione con Lorenzo Bini Smaghi anzitutto per la poltrona-chiave di futuro ministro dell’Economia. Ma fors’anche per quella di governatore della Banca d’Italia in caso di avvicendamento di Ignazio Visco; mentre già Mario Draghi sta entrando nella fase conclusiva del mandato al vertice Bce.
Zingales, renziano in stand by, oggi dialogante con un M5S alla disperata ricerca di personale politico-sitituzionale spendibile, è già per certi versi un “ministro-ombra” di un possibile governo di coalizione: quello germinabile fra renziani e grillini in un Parlamento neo-proporzionale. Ora questo shadow secretary of the Treasury mostra già di avere un’idea chiara, forse decisiva: dell’utilità dell’euro, della sua irreversibilità, dell’ipotesi che Italia o Grecia ne escano verso il basso o la Germania verso l’alto, di tutto si può, anzi si deve discutere. Una campagna elettorale su Eurexit in tutte le sue infinite opzioni non si profila pericolosa, ma anzi legittima, opportuna, forse addirittura doverosa.
La narrativa “seria e costruttiva” su quanto sia utile l’euro è peraltro quella che sta registrando spunti di convergenze fra Renzi e Beppe Grillo. Il primo mantiene una posizione nettamente critica nei confronti dell’euro di oggi e continua a propugnare un’eurozona “di domani” molto diversa dall’attuale: lontana dalle guidelines tracciate dalla Dichiarazione di Roma dello scorso 25 marzo. Il leader del Cinque Stelle ondeggia d’altronde di continuo fra il populismo anti-euro (ma con toni meno strutturati rispetto al lepenismo di Matteo Salvini o di Giorgia Meloni) e posizioni più grigie e meno chiuse: per non parlare dei suoi “colonnelli”.
Non è stato comunque sorprendente che Angela Merkel abbia voluto rappacificarsi con Silvio Berlusconi, paradossalmente più sperimentato come premier europeo di quanto Renzi appaia affidabile dopo gli ultimi tre anni. E se il Nazareno è certamente una matrice politicamente omogeneizzabile a un’amministrazione républicaine a guida Macron in Francia o a una grosse koalition in Germania (poco importa se a guida Merkel o Schulz), molto meno lo appare una possibile maggioranza “greca” fra Pd e M5S: virtualmente pronta a un referendum come quello indetto da Syriza nel luglio 2015, nel tentativo di trattare meglio con la Ue germanocentrica. Rimasto sostanzialmente un tentativo tattico, nonostante il discreto supporto anti-Merkel dato dagli Usa di Barack Obama e di Wall Street.
Nel frattempo vi sono pochi dubbi che Matteo Renzi – come Alexis Tsipras – abbia un solo obiettivo: vincere le elezioni, tornare a Palazzo Chigi, con qualsiasi coalizione, con qualsiasi narrazione, Eurexit compresa. Mentre a Zingales sicuramente non dispiacerebbe replicare il giro di giostra concesso due anni fa a Yanis Varoufakis, catapultato dalla University of Texas al ministero delle Finanze greco assediato dalla Troika.