Poco prima della Pasqua, festività di Resurrezione, l’Istat ci ha regalato una fotografia impietosa dell’economia del nostro Paese attraverso numeri e settori trasversali. Ma quali dati sono maggiormente interessanti all’interno del report Cento statistiche per capire il Paese in cui viviamo? Parecchi, a voler essere sinceri, ma uno più di tutti, almeno per quanto mi riguarda: sono più di 8 milioni gli italiani poveri, dei quali circa 4 milioni e mezzo vivono in condizioni di povertà assoluta. Cosa significa? Che non possono acquistare il minimo indispensabile per vivere. Tutto questo, in un Paese del G7.



Analizzando la situazione economica delle famiglie, l’Istat rileva che nel 2015, l’11,5% della popolazione viveva in condizioni di grave deprivazione, 3,4 punti sopra la media europea, una lettura che ci assegna il nono posto tra i Paesi con i valori più elevati. La povertà assoluta coinvolgeva il 6,1% delle famiglie residenti, 4 milioni 598 mila individui. Restano poi cronici problemi di diseguaglianza, misurata in termini di concentrazione del reddito: è più elevata in Sicilia e più bassa nelle regioni del Nord-Est.



E veniamo ad altre cifre. I conti pubblici dicono che nel 2015, il Pil pro capite italiano è ancora sotto il livello del 2012 e – depurato dei diversi prezzi tra i Paesi Ue – è inferiore del 4,5% rispetto a quello medio dell’Ue. Ma vediamo i riscontri diretti con i nostri partner, proprio rispettivamente alla voce del Pil pro capite: con la Francia la differenza è del 9,2%, ma è con la Germania che la partita si tramuta in una Waterloo totale: una differenza del 23,6%. Tra il 2010 e il 2015, poi, la produttività del lavoro italiana è aumentata dell’1,1%, un ritmo decisamente inferiore a quello medio europeo (+5,1%) e dei principali Paesi. L’indebitamento pubblico (2,4% del Pil) del 2016 è allineato al resto del Vecchio continente, mentre la pressione fiscale – al 42,9% – ci pone tra quelli con i valori più elevati, superati tra i maggiori partner solo dalla Francia.



Andiamo oltre, sempre prendendoli dal documento dell’Istat. Il mercato del lavoro, nonostante il Jobs Act e la decontribuzione, relega il nostro Paese in fondo alla graduatoria Ue: tristemente, solo la Grecia ha un tasso di occupazione inferiore al 61,6% italiano (in Svezia si supera l’80%). È poi un dato disomogeneo: è forte lo squilibrio di genere a sfavore delle donne (71,7% gli uomini occupati, 51,6% le donne), come il divario territoriale tra Centro-Nord e Mezzogiorno (nell’ordine 69,4% e 47,0%).

A testimoniare che la decontribuzione abbia operato il classico effetto spot o one-off ci pensa il fatto che l’anno scorso l’incidenza del lavoro a termine è rimasta invariata al 14%: se il tasso di senza lavoro è sceso all’11,7% nel 2016 (-0,2 punti), quello dei giovani di 15-24 anni ha perso 2,6 punti fino al 37,8%. Situazioni così critiche si trovano in Grecia, Spagna e Croazia: insieme all’Italia presentano valori dell’indicatore all’incirca doppi rispetto a quello medio europeo (20,4%, dati 2015). Preoccupa anche il tasso di mancata partecipazione: sono disponibili a lavorare ma non cercano 21 persone su 100 contro le 12 della media Ue.

Infine, la situazione devastante del nostro tessuto produttivo, piegato come mai dalla crisi globale, dal mancato accesso al credito, dalla tagliola di Equitalia e dalla promessa non mantenuta di pagamento delle fatture della Pubblica amministrazione, provvedimento in grave e colpevole ritardo. Le imprese nel 2014 sono scese a meno di 61 ogni mille abitanti, pur con un tasso di imprenditorialità comunque altissimo, frutto di la dimensione media delle aziende (3,8 addetti) ben sotto la media Ue (5,8). E se nel 2014 si è interrotta la perdita di competitività del biennio precedente, con le imprese italiane che hanno prodotto mediamente circa 125 euro di valore aggiunto per addetto ogni 100 euro di costo del lavoro unitario, resta comunque il ritardo sui competitor.

Insomma, un chiaroscuro più scuro che altro. Ma, al netto delle criticità croniche del nostro Paese, delle riforme mancanti o mal applicate e delle politiche governative più o meno efficaci, esiste un vulnus dentro l’Ue? Insomma, c’è qualcosa di rotto alla radice che ha reso la crisi finanziaria del 2008 una quasi condanna a morte per i cosiddetti Piigs dell’Unione? Partiamo da un presupposto: il cambiamento nella popolazione di fascia centrale delle varie nazioni (25-54 anni) è stato il driver dell’attività economica dell’ultima metà del secolo scorso, prima in crescita e poi in fase di discesa. D’altronde, la cosiddetta core population è quella che lavora, che crea una famiglia, che compra casa, che accende un mutuo e che opera come consumatore primario del credito. Anche un piccolo aumento (o, al contrario, calo) di questa popolazione crea e garantisce una crescita dell’attività economica che va oltre ciò che i freddi numeri in sé parrebbero indicare.

Per mettere in chiaro la diretta correlazione tra core population e attività economica, spesso la si lega al miglior indicatore di quest’ultima, ovvero i consumi energetici totali. Quando cala la popolazione attiva, calano i consumi e viceversa. Prendiamo ora la locomotiva d’Europa, la Germania e questo grafico. Fin dalla fine della Seconda guerra mondiale, i governanti tedeschi erano consci della crisi demografica cui stavano andando incontro e dell’impatto che questo avrebbe avuto sulla crescita economica, visto che il calo di giovani incipiente sarebbe andato presto a impattare sui numeri assoluti della popolazione attiva. La core population tedesca ha vissuto il suo picco nel 1995 e da allora la sua base di consumo interno è cominciata a calare, attualmente sotto di 3,3 milioni di potenziali consumatori, cioè un 9% circa di calo core, qualcosa che si traduce quasi matematicamente in una depressione dell’attività economica.

Matematicamente, ma solo potenzialmente, in questo caso. Il grafico ci mostra infatti la dinamica della core population tedesca dal 1950 al 2040, un dato creato semplicemente prendendo la popolazione 0-24 anni esistente (più l’immigrazione pianificata) e traslandola dentro la core population da qui al 2040. Stando a questi calcoli, la popolazione attiva tedesca dovrebbe calare del 30%, più di 10 milioni di persone, da qui al 2040 (più dei 7 milioni di tedeschi di tutte le età che morirono a causa della guerra). Perché prima ho detto potenzialmente? Ce lo dice questo secondo grafico, il quale ci mostra come la Germania avesse un piano al riguardo, direttamente legato all’avvento dell’Ue e dell’euro, periodo storico coincidente con l’inizio del calo della core population. E cos’è accaduto? Che la moneta unica ha compiuto il miracolo, evitando gli effetti nefasti del calo della base dei consumatori, togliendo il vincolo del marco forte e moltiplicando di fatto il mercato dell’export tedesco in Europa.

Le esportazioni di Berlino, infatti, come percentuali del Pil, si sono essenzialmente raddoppiate dall’avvento dell’euro, passando dal 22% del 1995 al quasi il 50% del 2016: il grafico mostra in maniera plastica il completo decouple delle due dinamiche, ovvero a fronte di una core population in calo, il Pil cominciava a crescere dal 1995 in poi, trainato in maniera quasi dall’export. E questo terzo e ultimo grafico ci mostra come l’euro abbia garantito anche un altro effetto desiderato, visto che la ratio debito/Pil tedesca, in aumento durante il periodo delle riunificazione, magicamente ha preso un trend discendente, il tutto al netto delle dinamiche macro di cui abbiamo appena parlato. Insomma, la Germania ha utilizzato l’integrazione Ue, ma soprattutto l’euro, come uno strumento economico per deviare le proprie traiettoria macro calanti, scaricando però i costi addosso a qualcun altro a causa di questo meccanismo di trasfusione da Sud verso Nord: chi? I cosiddetti Piigs, ovviamente, questo al netto delle loro brutte abitudini, del debito eccessivo e degli squilibri macro.

La core population di questi Paesi, infatti, ha vissuto il suo picco circa 15 anni più tardi di quella tedesca, ma, in base alle proiezioni, entro il 2040 sarà tornata ai livelli degli anni Sessanta, scendendo di 17 milioni di unità dal massimo del 2010, un calo di circa il 30% (da 57 a 40 milioni). Ma se combiniamo il dato del Pil dei cosiddetti Piigs a quello del loro Pil, la figura che ne esce è molto diversa da quella miracolosa della Germania: i prodotti interni lordi dei quei Paesi hanno infatti cominciato a flettere prima del picco nella popolazione attiva, di fatto tramutando l’aumento del Pil in nulla più che una bolla del credito resa possibile da tassi di interesse che, alla fine, non hanno portato i benefici che si pensavano all’economia reale (al servizio del debito pubblico, certamente sì).

Le esportazioni come percentuale del Pil di quei Paesi sono cresciute di meno della metà di quella tedesca, una situazione che poi ha vissuto il combinato congiunto con minori aumenti salariali tedeschi (riforma Hartz), alta produttività e qualità superiore nei beni esportati, un mix che ha devastato la base manifatturiera degli altri Paesi Ue del Sud, il tutto al netto della crisi globale post-2008.

Tutta colpa dell’euro e della Germania? Ovviamente no, noi italiani per primi abbiamo le nostre responsabilità. Ma i numeri parlano chiaro: qualcosa di “magico”, a ridosso dell’introduzione dell’euro, ha messo il turbo a Berlino.