La lotta contro la povertà rappresenta forse uno dei banchi di prova decisivi per l’iniziativa politica contemporanea; si tratta di una realtà che la crisi ha scatenato, con la chiusura di centinaia di imprese in vari settori e la drastica perdita di posti di lavoro: tra il 2007 e il 2014, il numero di persone in povertà assoluta, ossia prive delle risorse economiche adatte a uno standard di vita “minimamente accettabile” (Istat) sono passate da 1,8 a 4,1 milioni.



Nel nostro Paese, lo scorso mese di marzo, il Governo ha varato un’importante legge delega relativa al “Contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali” (Legge 15/03/2017, n. 33), al fine di contribuire alla creazione di una società più inclusiva: al di là dei mezzi con cui può essere perseguita, a mio avviso, è il principio di fondo che conta: favorire un sistema di welfare pubblico che riduca quanto più possibile le diseguaglianze tra i cittadini e favorisca “il pieno sviluppo della persona” significa maggiore benessere per tutti, malgrado tutte le teorie più o meno mascherate della “mano invisibile”, di fatto responsabili della genesi della crisi, da cui ancora non sappiamo bene se siamo usciti o meno.



La legge introduce una nuova misura, il “reddito di inclusione”, con lo scopo di garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale un livello elementare di prestazioni per la conduzione di uno stile di vita dignitoso. Al riguardo, il principio dettato dalla delega è duplice: per un verso economico, il reddito deve sottostare alla prova dei mezzi, ossia essere erogato sulla base di determinati parametri reddituali, rappresentati generalmente dall’Isee (Indicatore della situazione economica equivalente), per altro verso sociale, essendo condizionato all’adesione a un “progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa”: ancora non sappiamo bene come questi progetti si configureranno; dovranno essere predisposti da un’equipe multidisciplinare costituita dagli ambiti territoriali, cioè aggregazioni, generalmente intercomunali, con funzioni di programmazione, progettazione, organizzazione e gestione associata dei servizi sociali, chiamate a formulare una “valutazione multidimensionale del bisogno”, oltre a monitorare gli esiti del piano.



Il memorandum di intesa tra il Governo e l’Alleanza contro la povertà (una realtà che raggruppa associazioni e altri soggetti sociali impegnati nel contrasto alla povertà assoluta in Italia), firmato in questi giorni dal Premier, ha fissato due criteri importanti. Innanzitutto, su richiesta dell’Alleanza, la definizione del parametro reddituale vedrà affiancato all’Isee – ipotizzato a 6.000 euro – il reddito disponibile. L’Isee, base per l’erogazione di parecchie prestazioni agevolate, è formato dal rapporto tra la somma della situazione reddituale più il 20% della situazione patrimoniale familiare (valore Ise) e la scala di equivalenza, numero determinato in funzione della composizione del nucleo familiare. Inoltre, è da ricordare che, a partire dal 2015, l’Isee è stato profondamente rivisto, includendo, ad esempio, anche somme fiscalmente esenti tra le componenti di calcolo.

L’introduzione di un parametro legato al reddito disponibile – ipotizzato a 3.000 euro – renderebbe l’accesso al sostegno più sensibile a situazioni di disoccupazione e più rispondente a situazioni reali di povertà, laddove, ad esempio, vi siano canoni di locazione, che vengono detratti per il calcolo del reddito disponibile, ovvero proprietari di prima casa rimasti tali ma poveri, spesso costretti a cedere a terzi la casa e vivere in affitto, oppure, se molto avanti negli anni, conservarne l’usufrutto.

L’importo del beneficio sarebbe calcolato come copertura (integrale o parziale) della differenza tra reddito disponibile e soglia di riferimento, considerando la scala di equivalenza per tener conto del nucleo familiare e l’importo di eventuali ulteriori prestazioni assistenziali, da sottrarre al beneficio da erogare. Per avere un’idea delle cifre si possono scorrere le pagine del report sul reddito di inclusione sociale redatto dall’Alleanza: ogni nucleo familiare riceverebbe mensilmente la somma necessaria a colmare la differenza tra la soglia di povertà, pari a 400 euro al mese per nuclei composti da una sola persona e abitanti in case di proprietà e il proprio reddito disponibile: la cifra media mensile oscillerebbe tra 316 euro (nuclei di una persona) e 454 euro (4 persone).

Per sostenere le misure di contrasto alla povertà, il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali si è impegnato a finanziare il Fondo per la lotta alla povertà, in modo strutturale, vincolando una quota della dotazione complessiva ai servizi di inclusione sociale.

Episodi come quello del memorandum possono segnare una svolta nello scenario politico, che esce dalla miopia dei giochi di potere e riprende la direzione verso la solidarietà con la gente, solidarietà di cui è oggi più vitale che mai ricostruire il tessuto.