«La situazione è preoccupante». Negli ultimi giorni di m ontante tensione attorno alla vicenda nordcoreana, queste sono state le uniche parole ufficiali proferite dal governo russo attraverso il suo ministero degli Esteri. Un po’ pochino da parte di uno dei tre grandi player geopolitici mondiali, il quale – oltretutto – è geograficamente interessato alla disputa, confinando per un breve tratto proprio con la Corea del Nord. Quella in atto tra Washington e Pyongyang è una vera disputa o una pantomima? Viene da chiederselo, soprattutto per un dato di fatto: al netto delle navi posizionate strategicamente, dei proclami e delle minacce da guerra nucleare, del lancio provocatorio di missili con 4 secondi di vita, è altrove che morte e destabilizzazione stanno chiedendo il loro tributo di sangue. Eppure, Siria e Iraq finiscono nei tg sono per gli attentati, non per quanto sta avvenendo sul campo e politicamente dietro le quinte: questo sì è molto pericoloso. 



Che la dittatura nordcoreana sia delirante lo testimonia il suo arsenale nucleare, ma giova ricordare che non ne è in possesso da oggi e che gli esperimenti balistici sono in atto da anni: come mai, di colpo, è diventata una priorità? La risposta a questa domanda e al ruolo defilato della Russia sta tutta in una parola: Cina. Lo stesso Romano Prodi, intervistato dall’Huffington Post, ha detto chiaramente che sarà Pechino a evitare degenerazioni nella disputa tra Usa e Corea del Nord, atto che la vedrà ricambiata con un ammorbidimento totale di Trump su tematiche commerciali: insomma, ciò che vi dico da sempre. Non a caso, domenica il Presidente Usa ha rilanciato un tweet nel quale diceva chiaro e tondo che sarebbe assurdo definire la Cina una manipolatrice valutaria, quando sta fornendo aiuto agli Stati Uniti proprio nel risolvere la questione nordcoreana. 



Insomma, l’inquilino di Pennsylvania Avenue si era spinto un po’ troppo in là con le minacce economiche verso la Cina in campagna elettorale, sapendo che erano nulla più che spacconerie da comizio e, una volta giunto al potere, ha dovuto guardare la realtà in faccia: Pechino non è interlocutore che si spaventa facilmente. Ma non potendo perdere del tutto la faccia, avendo mezzo Deep State e mezzo Paese contro, come testimoniano le violenze registrate nel weekend pasquale a Barkeley tra sostenitori e contestatori di Trump, il presidente ha prima usato l’appeasement e poi seguito il consiglio del suo entourage, in questo caso del vice-presidente, Mike Pence: imbarcarsi non in un conflitto, ma in un rapporto proxy, ovvero usare la minaccia nordcoreana verso il mondo – Sud Corea e Giappone in testa – come mezzo per mediare un do ut des con Pechino, essa stessa interessata alla partita, poiché stanca delle “estrosità” nucleari dei Kim e pronta a un regime change a Pyongyang che la veda sempre alleato principale, ma di un potere internazionalmente presentabile. Risolta la questione nordcoreana, molte dispute nell’area potrebbero rientrare e trovare una soluzione, con reciproco beneficio. 



Sul confine tra Cina e Nord Corea da una settimana sono pronti 25mila uomini del 47mo gruppo della Nona Brigata Corazzata dell’Esercito popolare pronti a entrare in azione: se sarà azione, scordatevi missili balistici e scenari da film. Sarà rapido, silenzioso e occuring in the night, come si dice in gergo: ovvero, senza troppi clamori, come si impone alla deposizione di un capo di Stato, ovviamente previa compravendita dei suoi vertici militari. Ma nel fine settimana è emerso un qualcosa che potrebbe rivelarsi un vero e proprio test della tenuta del nuovo asse di non belligeranza economica tra Washington e Pechino, oltre che il primo, serio banco di prova della tenuta sistemica del sistema finanziarizzato cinese. Se infatti negli ultimi giorni la Pboc ha inondato il mercato di liquidità per l’ennesima volta, sintomo contemporaneo di capacità interventista, ma anche di squilibri macro sempre maggiori, ora è il corpo malato del sistema cinese a rimandare sinistri echi: se infatti un mese fa aveva fatto sensazione la denuncia riguardo il fatto che la China Huishan Dairy Holdings, principale aziende lattiero-casearia del Paese, utilizzasse le sue mucche come collaterale per operare buybacks azionari, ora a finire sotto i riflettori del mercato è un vero e proprio gigante, il China Hongqiao Group, leader mondiale nel campo dell’alluminio. 

Già in novembre, i conti del gruppo avevano destato l’interesse degli operatori dopo che uno short-seller anonimo li aveva definiti «troppo belli per essere veri»: l’azienda definì le critiche «false e infondate», ma per tutta risposta, il 28 febbraio scorso la Emerson Analytics, un gruppo di trading focalizzato sulle frodi nel mercato azionario cinese, pubblicò un report di 46 pagine dedicato alle magagne riguardanti il gigante delle commodities. Prima di tutto, il tasso di profittabilità rispetto ai principali competitors. La China Hongqiao è infatti stata forte di un +27% a livello di margine di profitto operativo medio negli ultimi 5 anni, contro il -1,7% della statale Aluminum Corp. of China e il +5,9% di Alcoa, stando a dati di FactSet. Sandra Chow, analista del credito presso CreditSights, è tranciante nel giudizio: «La gente, in fondo, è sempre stata molto scettica riguardo la loro capacità di essere profittevoli rispetto ai concorrenti». Ora, però, i guai cominciano a salire d’intensità, perché le accuse di frode della China Hongqiao l’hanno costretta a sospendere il trading del proprio titolo e a cercare l’aiuto del governo centrale: di fatto, un bailout statale in piena regola per il principale operatore dell’alluminio al mondo. 

Le accuse sempre crescenti degli short-sellers hanno infatti portato l’azienda di account che segue il colosso dei metalli, Ernst&Young, «ad adottare un’attitudine molto più conservativa e attenta», tanto che il 6 marzo scorso ha notificato alla China Hongqiao di aver sospeso l’audit relativo ai risultati finanziari del 2016. Prima di rendere noti i risultati finanziari, l’azienda di account ha chiesto un’indagine indipendente relativa alle accuse mosse dagli short-sellers. Insomma, il Re pare nudo, anche se inquieta che Ernst&Young abbia dovuto attendere le accuse giunte dal mercato (oltretutto, da speculatori), prima di rendersi conto che forse c’era qualcosa di strano nei conti del proprio cliente. In una lettera all’associazione di categoria, la China Hongqiao rendeva quindi noto agli inizi di aprile che rischiava un’indagine da parte del regolatori di Hong Kong e un credit crunch in piena regola: stando al Wall Street Journal, la compagnia ha circa 10 miliardi di dollari di debito e potrebbe andare in default su un prestito da 700 milioni, se i creditori non le garantissero una dilazione. 

Sentendo la puzza di bruciato, Standard&Poor’s ha quindi seguito l’esempio di Ernst&Young e operato un downgrade sui bond dell’azienda, portandoli a un rating appena al di sopra del livello junk di B+. Anche per quanto riguardo Standard&Poor’s, complimenti agli analisti del rischio: senza gli short sellers, la China Hongqiao sarebbe ancora valutata come investment grade in pieno. Come, d’altronde, Lehman Brothers poco prima di schiantarsi: non serve un processo a Trani per affermare certe verità. Insomma, la situazione è tale che il gigante dell’alluminio ha dovuto prendere carta e penna e scrivere all’associazione di categoria e al governo per renderli edotti riguardo «gli effetti molto seri che deriverebbero da un non intervento, tra cui rischi finanziari sistemici a livello regionale e un drammatico livello di tensione sociale». Parliamo di un’azienda che impiega oltre 60mila persone e che negli ultimi anni è divenuta leader mondiale a discapito di giganti come l’americana Alcoa o la russa United Co. Rusal PLC: questo grafico mette bene in prospettiva i volumi produttivi di cui stiamo parlando. 

E proprio in relazione a questo, il Wall Street Journal fa notare che «i guai della China Hongqiao potrebbero colpire l’industria dell’allumino in Cina e presentare un’opportunità per i produttori americani, i quali da sempre denunciano come l’azienda utilizzi tattiche scorrette per dominare il settore. Inoltre, quanto sta accadendo potrebbe rinforzare le preoccupazioni generali riguardo certe pratiche di business utilizzate dai giganti industriali cinesi, molti dei quali sono sempre più attivi a livello globale», Quale occasione migliore per uno che grida a ogni piè sospinto America first e che ha basato la sua campagna elettorale sulla denuncia del dumping commerciale e valutario cinese? 

Donald Trump interverrà o, comunque, lascerà campo libero a eventuali mosse contro la China Hongqiao, sfruttandone la debolezza? State certi di no, Washington con la crisi nordcoreana ha già ottenuto ciò che voleva: ovvero, il dispiegamento anticipato in Corea del Sud del sistema anti-missile THAAd, fino a non più tardi di due settimane fa avversato totalmente da Pechino, pronta alle barricate per evitarne l’arrivo nell’area. Ma tutto cambia e in fretta: in Corea del Sud scatta l’impeachment e la destituzione della scomoda (per Washington) presidente, Park Geun-hye, per l’amicizia con una sciamana, la Corea del Nord diventa immediatamente una priorità globale, Donald Trump e Xi Jinping si incontrano in Florida et voilà, gli equilibri diventano più mobili. E flessibili. 

Come i due ubriachi che si reggono l’un altro per non cadere, Cina e Usa per ora non possono farsi apertamente guerra commerciale. Per ora, però. L’Europa farebbe bene a vigilare. E a farsi trovare pronta.