La situazione di Alitalia sta diventando sempre più complicata, specie dopo la firma di un accordo che pare, come il nuovo piano industriale, non convincere molti lavoratori. I quali, a partire da oggi e fino alla mezzanotte di lunedì 24 aprile, sono chiamati a partecipare al referendum per approvare o respingere la bozza di intesa raggiunta tra sindacati e compagnia area nell’ultimo incontro mediato dal Governo. A questo punto abbiamo pensato di rivolgerci ai diretti interessati, i dipendenti, intervistando Carlo Furiga, Segretario nazionale del sindacato confederale Confael-Assovolo, che raggruppa moltissimi piloti e assistenti di volo di Alitalia.



Come nel 2009 si sta ripetendo l’avversione del personale Alitalia nei riguardi delle decisioni dell’azienda. Ci può spiegare perché? 

Io non parlerei di avversione dei lavoratori verso l’azienda: nella stragrande maggioranza dei casi, i lavoratori di Alitalia sono persone orgogliose del proprio ruolo e della propria compagnia, che ancora guardano il tricolore sulla coda con un pizzico di emozione. Piuttosto è diffuso un atteggiamento critico verso il management, gli azionisti e quelle ingerenze politiche che nel corso degli anni hanno trascinato la compagnia dai primi posti del ranking mondiale alla situazione odierna: una perfetta rappresentazione del declino del nostro Paese nel mondo. Rispetto al 2009 la situazione è ancora peggiore.



Perché?

Siamo passati attraverso un fallimento che ci è costato 4.000 posti di lavoro e pesanti sacrifici economici, per ritrovarci nel 2014 daccapo con altri 2.000 esuberi e altri sacrifici per consegnare a Etihad una compagnia più snella e con i bilanci in ordine. Oggi, dopo appena due anni, ci vengono richiesti ulteriori sacrifici in termini di normativa, salari ed esuberi. Tutti gli analisti sono concordi nel sostenere che il costo del lavoro non è il problema principale di Alitalia: in questi otto anni abbiamo assistito a un progressivo depauperamento della compagnia, una scarsità di investimenti strutturali, una strategia di posizionamento sul mercato confusa e poco incisiva. I costi sono fuori controllo, le perdite sono di nuovo alle stelle, ma tutto questo non può essere risolto con la stessa ricetta fallimentare usata già due volte in passato.



Gran parte dei media e della gente considera assistenti di volo e piloti “caste” di privilegiati… 

Facciamo un lavoro particolare, ed è facile confondere l’apparenza con la realtà: in quanto naviganti veniamo associati all’idea del viaggio di piacere o della vacanza. Siamo professionisti della sicurezza, ma anche dell’accoglienza e della comunicazione. Dietro i nostri sorrisi, però, ci sono turni massacranti, giornate lavorative che superano costantemente le 10-12 ore di servizio, le sveglie all’alba e le notti in bianco, jet lag e fusi orari. Il tutto a fronte di un salario che è stato pesantemente ridotto, che non prevede alcuna indennità particolare per il lavoro straordinario, o notturno, o per quello svolto nelle festività. Abbiamo diritto a una diaria di 42 euro per ogni giornata che passiamo fuori casa, con la quale dovremmo sostenere le spese di alimentazione, sia in Italia che all’estero: praticamente impossibile fare colazione, pranzo e cena con una cifra del genere. I privilegi, come dice lei, sono stati cancellati molti anni fa: ormai siamo allo stesso livello di un impiegato. 

Questo referendum per voi che dimensione ha e perché è stato deciso? 

Mi permetta di illustrare brevemente il contesto in cui è maturata questa nuova crisi di Alitalia: mentre tutte le compagnie aeree registravano utili record, con il prezzo del carburante a livelli minimi da vent’anni e una domanda di trasporto aereo in crescita sia per i passeggeri che per il cargo, solo una strategia completamente inadatta ad approfittare di una situazione così favorevole può spiegare un livello di perdite quali quelle denunciate da Alitalia. Ancora una volta invece l’azienda ha scelto la scorciatoia del taglio del costo del lavoro, e i sindacati non sono riusciti a immaginare altra risposta che non fosse la richiesta di uno “sconto” su questi tagli. 

Torniamo ora al referendum…

Il referendum su un “verbale di confronto” che lascia nella completa indeterminatezza i tagli è qualcosa che non ha precedenti nella storia delle trattative sindacali: i referendum si fanno sui contenuti dei contratti, non sulle intenzioni. In sostanza, si chiede ai lavoratori di legittimare con il loro voto il diritto di questi sindacati a continuare questa trattativa a perdere: dal momento che in Alitalia non si è mai applicato il Testo unico sulla rappresentatività, non è possibile stabilire la reale rappresentatività delle varie sigle. Allo stesso tempo appare come uno scarico di responsabilità: utilizzare uno strumento formalmente democratico per accettare un ricatto, sotto la minaccia di un fallimento.

La penetrazione in Italia delle low cost è stata notevole. Ci può spiegare l’avversione che avete nei confronti di questo fenomeno? 

Una risposta esaustiva a questa domanda prevederebbe un’analisi delle responsabilità della politica, che ha completamente abdicato al suo ruolo di programmazione e ci ha consegnato un Paese in cui non esiste un piano nazionale dei trasporti che possa integrare coerentemente le varie reti. Le low cost sono state abili nell’inserirsi in questo vuoto di programmazione, sfruttando la perenne concorrenza fra aeroporti distribuiti sul territorio nazionale in omaggio a logiche campanilistiche ed elettoralistiche. 

Con quali conseguenze?

Attraverso contratti di comarketing hanno drenato risorse per miliardi di euro dagli enti aeroportuali, finanziati con denaro pubblico dalle regioni o dai comuni di pertinenza; applicando contratti di lavoro esteri ai lavoratori italiani hanno potuto godere di tassazioni e contributi pensionistici fortemente agevolati. Recentemente sono state addirittura ammesse a operare sull’hub di Fiumicino. Tutto questo delinea una situazione di concorrenza sleale che non ha eguali in Europa: dove gli Stati si occupano di costruire reti di trasporti efficienti e di regolamentare la distribuzione delle infrastrutture attraverso agenzie centralizzate, le low cost sono obbligate ad applicare i contratti di lavoro nazionali, le loro quote di mercato si riducono a percentuali fisiologiche corrispondenti a quei passeggeri disposti a spendere meno e a ricevere un servizio più scarno. 

Pochi giorni fa il Ministro Delrio ha esplicitamente parlato di “prendere o lasciare” nei confronti del nuovo accordo. Cosa ne pensate? 

Come dicevo, quando la politica rinuncia a esercitare il suo ruolo nobile di programmazione è condannata alla ricerca del consenso attraverso i mezzi più immediati: il ministro Delrio sa bene che anche se passa l’accordo il piano industriale presentato da Alitalia non sta in piedi, tanto è vero che le banche richiedono la garanzia pubblica a copertura dei loro investimenti. 

Perché dice che il piano non sta in piedi?

Non si può ridurre il numero degli aerei in flotta e pretendere di aumentare i ricavi aumentandone le tratte giornaliere: è come se un ristorante riducesse i tavoli, ma allungasse gli orari di apertura, come se i clienti potessero pranzare a tutte le ore. Non si può ragionevolmente prevedere un aumento dei ricavi del 30% se non si programmano chiaramente gli investimenti in aerei di lungo raggio, che sono passati da 8 a 14 in più nel giro di pochi giorni. Non si possono riportare i bilanci in attivo se non si affrontano i nodi dei costi di leasing e di manutenzione, superiori anche del 40% alle medie di riferimento. Dietro tutti questi ultimatum si intravede solo la volontà di non contrariare le aziende, come già accaduto nel 2016, quando venne ritirato l’aumento delle tasse aeroportuali che aveva fatto infuriare Ryanair. Se è vero che Alitalia è un asset strategico per il Paese, il governo dovrebbe intervenire per assicurarne un effettivo e duraturo rilancio, che passa necessariamente per la valorizzazione delle professionalità presenti in azienda.

(Guido Gazzoli)