Nel bene e nel male, l’Italia è un Paese che sfugge quasi sempre alle interpretazioni lineari e semplici. Che un gruppo a controllo familiare tra i più grandi, Atlantia, appartenente alla famiglia Benetton, quella dei golfini, mediti seriamente di acquisire un concorrente spagnolo creando il maggior colosso europeo delle autostrade fa effetto se si considera che ogni mese crolla un viadotto, o che le imprese familiari italiane più grandi – da Luxottica a Italmobiliare, da Pirelli a Fininvest – non fanno altro, da un po’ di tempo, che vendere all’estero i loro gioielli. Ma allora siamo vivi e dinamici o torpidi e rinunciatari?



La risposta sincera è che siamo complicati e individualisti, procediamo in ordine sparso e generiamo contraddizioni. Bello o brutto che sia, siamo così. Almeno non ci si annoia. Vediamo più in dettaglio il caso Atlantia. Dieci anni fa, i Benetton stavano per varare la stessa operazione, accettando però che con la fusione la gestione dell’azienda che sarebbe scaturita dall’unione di Autostrade (all’epoca unico contenuto di Atlantia, che infatti oggi si chiama diversamente avendo inglobato Aeroporti di Roma) e Abertis fosse spagnola. Inoltre, poiché Atlantia è appunto a controllo familiare mentre Abertis era già prevalentemente controllata da investitori istituzionali (c’era ancora dentro una famiglia che successivamente ha venduto le sue quote, ma era già minoritaria), apparve a tutti verosimile se non sicuro che il pallino l’avrebbero tenuto in mano gli spagnoli anche dal punto di vista della proprietà, al di là degli iniziali equilibrismi di facciata. La cosa saltò sia per la fiera opposizione dell’allora capo-azienda italiano Vito Gamberale che per il no del governo italiano (Prodi) dell’epoca. Cos’è cambiato in dieci anni?



Tante cose. Per esempio: il nuovo management italiano, guidato dall’amministratore delegato di Atlantia Giovanni Castellucci, ha una visione strategica internazionale molto spiccata (non che Gamberale fosse miope, ma era diverso il contesto), ed è convinto che crescere sia necessario anche e soprattutto all’estero. Inoltre, proprio poiché Atlantia ha riunito al suo interno anche l’altro asset della famiglia Benetton, cioè Aeroporti di Roma, è cresciuta già molto dimensionalmente, ponendosi in condizioni migliori rispetto all’obiettivo di assorbire Abertis. Poi c’è stato un buon esempio: il principale concorrente italiano di Atlantia, il gruppo Gavio, ha acquistato asset in Brasile, diversificando decisamente la fonte del proprio business e spostandola maggioritariamente su attività internazionali, mentre per Atlantia i due terzi oggi sono italiane.



Nel frattempo gli spagnoli si sono dati da fare, un po’ minacciosamente: hanno comprato partecipazioni in Italia, come l’A31 e la Brescia-Padova, affacciandosi a casa dei rivali. Sono venuti a Milano a chiedere alla Regione Lombardia l’ok per infilarsi tra i soci di Serravalle e Brebemi, ma né Gavio né Intesa vogliono almeno per ora mollare. Insomma, si sono agitati in casa nostra.

Nel frattempo, i rapporti di Atlantia con il governo Renzi sono stati abbastanza buoni, come per tutti i gestori autostradali, molto meglio degli anni in cui all’Economia guidava Tremonti: il che depone male per gli interessi degli automobilisti – che hanno visto nel rapporto pedaggi pagati-servizi fruiti un lieve peggioramento -, ma bene per gli imprenditori.

Tutto questo non vuol dire però che le buone opportunità di crescita in Italia (si potrebbe anche scrivere: la pacchia) tipiche della stagione delle privatizzazioni a leva, possano continuare: c’è stata un’epoca in cui grandi acquirenti privati, Benetton compresi per Autostrade e la Gemina di Romiti per gli Aeroporti di Roma, hanno comprato aziende pubbliche con una leva finanziaria pazzesca facendo di fatto pagare al mercato il costo di quelle acquisizioni. Ebbene: quell’epoca è finita per sempre, insieme con le aziende pubbliche da privatizzare.

Dunque, per i Benetton – secondo il loro pilota Castellucci – è una scelta obbligata crescere, a meno di non voler vendere, e per ora, evidentemente, non vogliono vendere. Ma crescere vuol dire crescere all’estero. Ed ecco ritornare ad Abertis. Se l’operazione con Atlantia si farà, vedrà la luce uno dei maggiori operatori autostradali del mondo – sicuramente primo in Europa – con una capitalizzazione complessiva di circa 35 miliardi di euro e un giro d’affari annuo di oltre 10 miliardi di euro. Complimenti. Pensiamo a cosa avremmo detto nel caso contrario, che cioè fosse stata Atlantia a essere ceduta ad Abertis. Apriti cielo, di nuovo con la deindustrializzazione, di nuovo col declino, con l’ammainabandiera.

La verità più complessiva è che in un quadro generale che negli ultimi anni è oggettivamente e statisticamente stato scandito dalla deindustrializzazione e degli ammainabandiera nazionali, spiccano le individualità, anche in controtendenza. A volte spicca il management, con la sua forza e la sua visione. Castellucci vuol comprare Abertis: auguri, bravo, speriamo ci riesca, sarebbe un bene per l’Italia, anche se i viadotti continuerebbero a crollare perché alle strade statali nessuno sta seriamente lavorando da anni e la fusione renziana tra Anas e Ferrovie non migliorerà le cose, e le Provincie evirate dei loro onori e oneri non fanno più manutenzione.

E se Castellucci compra in Spagna, Giuseppe Bono di Fincantieri (azienda pubblica leader mondiale con 10 anni di ordinativi acquisiti!) compra in Francia i cantieri navali europei più grandi insieme ai nostri, violando la “grandeur” francese e convincendo il governo di Parigi. Bravo anche lui. Dunque qual è l’Italia vera? Quella rinunciataria degli imprenditori che vendono o quella baldanzosa dei manager che comprano? Quella del Montepaschi che fallisce o quella di Intesa che si sviluppa e svetta in Europa? Quella di Avio che va in Borsa con un portafoglio ordini per i voli spaziali che le dà buone prospettive ultradecennali o quella di Alitalia che si avvita nella sua crisi eterna?

L’Italia è tutta questa roba qui e anche altro. È il Paese dove la realtà, come diceva Pirandello, non ha nessun bisogno di essere verosimile, per essere vera. Il Paese indecifrabile dal Fondo monetario internazionale e dall’Unione europea, incomprensibile per gli analisti di Moody’s. Ma autentica e viva. Proviamo ancora a crederci, che ci sia un “modello italiano” sostenibile. In questo senso, il caso Atlantia-Abertis, se si concretizzasse, sarebbe un bell’esempio.